STASERA CON ParlaMente 18 luglio 2014

domenica 5 ottobre 2014

#Ebola, un massacro figlio dell'imperialismo

La storia della Sierra Leone non è fatta di grandi condottieri e storici imperatori. Questi 70 mila chilometri quadrati di terra nel cuore dell’Africa equatoriale, venduti alla Gran Bretagna nel 1788 da un sovrano locale per farne una colonia in cui raccogliere schiavi affrancati e apolidi africani, hanno visto l’indipendenza solo nel 1961. Prima governatori e commissari inglesi, poi una serie impressionante di colpi di stato militari e relative dittature, fino alla guerra civile contro il Fronte Rivoluzionario Unito. Solo da pochi anni si tengono elezioni democratiche. Oggi il paese è tra i più poveri del mondo e martoriato dall’epidemia di Ebola, tanto che il governo ha dichiarato la settimana scorsa alcuni giorni di coprifuoco.

Nel frattempo, in Europa e negli Usa si guarda con preoccupazione alla diffusione del virus. A proposito, siamo sicuri che l’Occidente sia senza colpe in tutto ciò? Risponderete che una malattia non distingue europei e africani, ricchi e poveri, potenti e diseredati. Ma mi chiedo come sarebbe la situazione se la Sierra Leone avesse un sistema sanitario all’avanguardia, una classe politica preparata e una cittadinanza istruita ed informata. Il focolaio iniziale in Guinea si sarebbe sviluppato con la stessa virulenza in uno stato ricco e fornito di infrastrutture all’avanguardia? La malattia si sarebbe trasmessa così velocemente se la popolazione disponesse di adeguati servizi d’igiene pubblica? Probabilmente no. E se quelle zone dimenticate della terra si trovano nel degrado, la colpa è in gran parte dell’imperialismo occidentale.

Perché infatti uno Stato sia davvero indipendente non basta concedergli una bandiera, un inno e una costituzione. Serve soprattutto una road map che si ponga l’obiettivo di raggiungere una solida democrazia e l’autonomia economica, due cose che al capitalismo non convengono per niente. Laddove infatti governano i signori della guerra non ci sono diritti per i lavoratori. Se poi l’alternanza al potere è garantita solo dalle armi non si può pensare ad una continuità politica che garantisca la protezione dell’economia locale dalla speculazione. Dunque permane la povertà assoluta, prospera lo sfruttamento, la presenza statale in materia di welfare, istruzione e sanità è impercettibile.

Proprio con tali mezzi in Sierra Leone la sudafricana Branch-Heritage continuava ad estrarre diamanti durante la guerra civile grazie alla protezione armata dei mercenari della Executive Outcomes e in Liberia quasi la metà della terra è nelle mani delle corporation. Il progresso e l’enorme sviluppo dell’emisfero settentrionale del pianeta si sorreggono sulla miseria dell’altra metà e la globalizzazione dei mercati sta solo peggiorando le cose. È chiaro che non si può andare avanti così. L’Occidente deve assumersi finalmente le sue responsabilità o le conseguenze saranno terribili. Possiamo scegliere se continuare su questa via e aspettare che il gigante imperialista collassi tra allucinati remake dell’11 settembre, epidemie e disastri ecologici, oppure rinunciare a questo spietato regime di oppressione.

Come? Potenzialmente esistono mezzi di enorme efficacia. L’Onu si liberi dal fardello del Consiglio di Sicurezza, con l’antidemocratico diritto di veto dei membri permanenti. Il Fmi e la Banca Mondiale concedano prestiti a condizione di adottare politiche di interventismo statale e democratizzazione, in luogo del tirannico liberismo attuale. È vero, sembra un’utopia. Ma, almeno per cominciare, non è necessario aspettare che questi tre guardiani di granito si muovano: è venuto il momento di realizzare una efficace cooperazione internazionale in cui l’Unione Europea rivesta un ruolo guida, prima di tutto fortificandosi e quindi intensificando i rapporti con entità simili (l’Unione Africana, ad esempio) cosicché anche queste a loro volta si consolidino per raggiungere un’indipendenza reale. La verità è che l’era degli Stati-nazione è finita. Se si vuole contare qualcosa, se si vuole cambiare il sistema globale, bisogna unire le forze, aderire alle lotte di emancipazione dei popoli dimenticati. Il futuro? Un governo mondiale fondato sulla pace e sulla giustizia. Come voleva Berlinguer.

Samuel Boscarello per Qualcosa di Sinistra

giovedì 25 settembre 2014

I giovani salveranno l’Italia (e non solo) dalla #crisi


Ogni generazione si distingue per alcuni tratti fondamentali. La caratteristica principale della nostra, nata sulle macerie del Muro di Berlino e cresciuta su quelle delle Twin Towers, è il nichilismo: basta fare due passi in giro per accorgersene. Nelle scuole e nelle università, nelle piazze e sui social network sembra dominare una generale rassegnazione alle sorti di un periodo storico che rischia di essere archiviato solo come una delle tante crisi che il capitalismo ha conosciuto da quando esiste, quelle che certi economisti considerano fisiologiche. Lo saranno per il mercato e la finanza ombra, non certo per chi vive ordinariamente la propria vita, con tanti progetti in testa e pochi mezzi per realizzarli.

Il rifiuto generale dei modelli sociali, politici ed economici che fino ad ora ci sono stati propinati è condivisibile in sé. Non si può dire altrettanto per le conseguenze di ciò: prima tra tutte il populismo. L’avanzata in Europa dei partiti di destra (dall’Ukip di Farage agli ungheresi dello Jobbik) rischia di compromettere seriamente l’unione dei popoli del nostro continente in nome di stupide pretese nazionalistiche. Vecchiume, insomma.

Il fatto che in Italia si sia affermato il M5S, che rifiuta categoricamente di collocarsi a destra o a sinistra, non cambia molto le cose. In un momento nel quale gli ideali politici sono in crisi, rifiutarli del tutto sarebbe una pena capitale. Abbiamo bisogno invece di restituire valore alle ideologie, trovando nuove parole e vie inedite per trasformarle in fatti. Solo così potremo vincere l’inerzia, credendo in qualcosa che non è un dogma né un’utopia: la democrazia nella sua forma compiuta, che comprenda anche l’uguaglianza economica e la giustizia sociale, oltre che la libertà politica. La demagogia, che per sua natura approfitta del malcontento popolare, può solo trarre forza dal declino e dalla corruzione. Ciò basta a rivelare tutta la sua malafede: la storia insegna, specie quella compresa tra le due guerre mondiali.

Ma anche la via populista nel nostro Paese sta perdendo forza. Alle ultime europee il gradasso hashtag grillino #vinciamonoi si è trasformato nel più mite #vinciamopoi e l’astensionismo, rispetto alla tornata elettorale del 2009, è aumentato del 7,5%. La correlazione tra i due fatti è presto detta: continua a dilagare la convinzione che il modo migliore per esprimere il proprio dissenso sia il totale disinteresse a ciò che accade intorno a noi. Questo fa paura.

Dobbiamo capire che la politica non è un hobby che si può scegliere di coltivare, smettendo di farlo quando i risultati ottenuti dal nostro impegno non sono all’altezza delle aspettative. Non curarci della cosa pubblica può solo peggiorare la vita dei cittadini, dal momento che in democrazia non esistono controllati e controllori, ma maggioranza e opposizione. E se la critica costruttiva dell’opposizione rinuncia al suo ruolo, qualunque sia il partito al governo, la libertà stessa rischia di morire.

Per questo motivo la politica è il dovere morale più alto che ci sia. Esso è rivolto a tutti, senza alcuna distinzione, ma deve avere un valore più forte proprio per noi, che stiamo pagando il prezzo più alto della globalizzazione selvaggia e della speculazione. È un imperativo rivolto specialmente a voi, coetanei che avete perso la fiducia nel futuro: anch’io reagirei ugualmente, se non pensassi che negli ultimi anni abbiamo avuto la conferma del fallimento totale del sistema capitalista. Uniamoci e cerchiamo insieme ideali innovativi, perché i nostri nipoti non debbano rivivere la nostra stessa situazione. È rivolto a voi, che ricoprite posizioni di potere e ci rimproverate di essere “bamboccioni”: Pertini diceva che “i giovani non hanno bisogno di sermoni, i giovani hanno bisogno di esempi di onestà, di coerenza e di altruismo.” Se non siete disposti ad offrirceli, lasciate spazio a noi. Avete fallito totalmente, ma almeno ci avrete guadagnato in dignità. Ma è rivolto specialmente a voi, vittime delle disuguaglianze di ogni tipo: date fiducia alla nostra generazione. Vogliamo combattere la povertà, l’emarginazione e l’avidità del sistema, perché tutti gli esseri umani siano finalmente davvero uguali. Perché non è vivibile un mondo che si divide in sfruttatori e sfruttati.

Samuel Boscarello per Qualcosa di Sinistra

martedì 5 agosto 2014

La fine di Gramsci non arriverà





Chi esulta perché l'Unità ha chiuso i battenti mi sembra simile a quei parenti che brindano sulla tomba del vecchio zio per l'eredità ricevuta: ben poco elegante e del tutto irrispettoso. E potete pure star sicuri che sono tanti. Non pensano al personale e ai giornalisti, che dovranno fare i conti con un mercato del lavoro asfittico. Ma, cosa più grave di tutte, non capiscono che perdendo l'Unità diciamo addio anche ad un pezzo della nostra storia. Se ne va una parte di ciò che ci ha lasciato Antonio Gramsci, una porzione considerevole della memoria italiana. Le leggi di un mercato selvaggio che sta uccidendo la nostra cultura e gli errori di gestione hanno fatto la loro parte, ma non bisogna trascurare l'antigiornalismo.


Che cos'è? Si tratta del preoccupante atteggiamento dell'italiano medio di fronte alle testate di stampa. In parole povere, come l'antipolitica, è il classico qualunquismo di chi vuole distruggere tutto. Sui social network possiamo assistere ogni giorno a randellate digitali contro i “media corrotti”. Prendendo ad esempio proprio il caso de l'Unità, i moralizzatori del “ben vi sta” si sono scagliati contro la faziosità del giornale, sottolineando come a loro avviso lo storico fondatore si stia rivoltando nella tomba e quanto forte sia l'asservimento della linea editoriale al Pd. Che, per inciso, è genealogicamente erede anche del Pci. A questo proposito è bene ricordare che in Italia il giornalismo moderno nasce con la lotta politica, dunque è impregnato di una vocazione critica che ci accompagna ancora oggi. Ciò non toglie che distinguere i fatti dalle opinioni sia una cosa, mentre ben altro è manipolare la realtà per disinformare.


Adesso, egregi improvvisati critici del giornalismo italiano, non vi pare un tantino eccessivo ritenere che tutta la stampa italiana sia corrotta? Ma soprattutto, non è segno di estrema ignoranza esultare quando un giornale chiude? Non c'entra nulla il fatto di essere in disaccordo con la linea politica della testata: tutti sanno che l'Unità era l'organo di stampa del Pci. Inoltre, se il motivo della vostra insoddisfazione fosse questo, vi pregherei di riconsiderare un attimo la vostra idea di democrazia. Gli ultimi a darsi da fare per eliminare dalla circolazione i giornali che non la pensavano come loro erano i fascisti, e la fine che fece la sede dell'Avanti!nel 1919 - incendiata e devastata - dovrebbe essere un monito ancora oggi. Dovrebbe.


Il motivo di tanto accanimento contro la stampa è quello comune ad ogni forma d'intolleranza. Insoddisfazione e disinformazione, con una bella dose di populismo. Senza dubbio la rovina della classe giornalistica è la prostituzione intellettuale, ma questo non basta a marchiare un'intera categoria di lavoratori come pennivendoli: è un insulto verso chi svolge onestamente il proprio dovere. Inoltre invocare la chiusura dei giornali per i motivi più disparati (compresi i tanto odiati finanziamenti pubblici) è il paradosso di chi, pur di non essere disinformato, preferisce non informarsi. Il web non è una scusante. Se da un lato Internet ci ha dato la grande possibilità di ottenere notizie gratuitamente, immediatamente e comparando diverse fonti, dall'altro bisogna saperlo usare con consapevolezza ed evitando di abboccare allo scoop complottista del momento o a clamorose bufale. Una capacità che gli italiani non hanno ancora acquisito: fatevi un giro su Facebook per averne le prove.

Per questo motivo abbiamo bisogno del web, altrimenti non esisterebbe nemmeno questo angolo di blogosfera dedicato all'informazione corretta, ma non possiamo rinunciare ai professionisti della stampa. Ritengo che l'attuale crisi dell'editoria sia solo una transizione verso l'integrazione multimediale. Forse domani ci sarà meno carta in circolazione, i giornali guadagneranno con la pubblicità online e – perché no – potranno anche diventare organizzatori di eventi, possedere canali televisivi e pubblicare inchieste in forma di pamphlet e saggi da acquistare in libreria. Qualcuno ci sta timidamente provando. I mezzi non mancano, bastano creatività e voglia di scommettersi. Quanto a l'Unità, non smettiamo di crederci: fino ad ora è sempre riuscita a tornare tra noi. La fine di Gramsci non arriverà.

Samuel Boscarello per ParlaMente

domenica 3 agosto 2014

Cospirazionismo in salsa cattolica: le lobby gay

In cerca di nemici, a caccia di complotti. Dopo i satanisti, gli evoluzionisti, le orde pluto giudaico massoniche e i comunisti, una nuova minaccia per la Chiesa: il potere gay.

Peccato che nel caso dell'insegnante di Trento nessuno abbia tirato fuori la storia della "lobby gay". Non è ironia: speravo davvero che qualcuno dell'orbita cattolica cominciasse a stracciarsi le vesti e gridare all'oscuro complotto, giusto per conoscere le relative argomentazioni di fronte ad un caso che dimostra quanto sia potente invece l'influenza della religione nell'Italia laica (anche se solo per la Costituzione). Ma si vede che la tentazione di giocare con gli assi nascosti nelle maniche è troppo forte. La storia della lobby, resa nota al mondo da papa Francesco per indicare un gruppo di vescovi omosessuali che ostacolano le riforme nella Chiesa, è diventata un modo per indicare ogni mezzo di contrasto alla discriminazione ecclesiastica verso il "sessualmente diverso". Un feticcio nefasto contro cui scagliarsi con tutte le forze, come le fantomatiche trame giudaiche ai tempi di Hitler o la demonizzazione del nemico durante la Guerra fredda. Ogni volta che si affronta il fatidico argomento, basta pronunciare le due parole d'ordine ed ecco che la schiera di paladini della famiglia tradizionale si riempie.

Si tratta dell'Armata CoCa, che non è una holding di imprenditori impegnati nel settore delle bibite gassate e neanche un cartello della mafia colombiana. CoCa sta per "Cospirazionisti Cattolici", un caso che dovrebbe essere studiato da sociologi e psichiatri, i primi per l'analisi e la descrizione del fenomeno, i secondi per la diagnosi e la cura. I CoCa sono alla perenne ricerca di nemici della dottrina di fede. In passato lottavano contro gli evoluzionisti, gli adoratori del demonio e i comunisti (categorie umane che buona parte delle volte si trovavano a coincidere), oggi hanno trovato nella lobby gay una nuova ed entusiasmante sfida. Peccato però che la terribile minaccia sia del tutto artificiale: il peggio è che gli opinion leader dell'area fondamentalista cristiana ne sono consapevoli. Il vero problema consiste nel fatto che i loro discorsi infuocati influenzano chiunque dia loro ascolto. La conseguenza è che l'esistenza della lobby gay viene accolta come una verità assoluta e non importa se i già citati opinionisti siano del tutto in malafede. 

Infatti la storiella viene tirata fuori quando fa comodo, specialmente in ambito politico. Scalfarotto a causa della sua legge, l'Unar per colpa degli opuscoli educativi contro l'omofobia e i sostenitori della laicità statale sono complici e fanno parte della congiura mondiale. Chissà chi è il grande burattinaio dietro tutto ciò. I vertici dei movimenti lgbt? Leader mondiali segretamente omosessuali? La famigerata cricca vaticana? Si attendono risposte. Ma chissà per quale motivo, non si fa mai riferimento all'onnipotenza del Movimento arcobaleno quando un'insegnante viene licenziata perché lesbica, o peggio mentre in Uganda l'ergastolo per i gay ha il beneplacito della Chiesa e la Russia chiude gli occhi di fronte alle violenze omofobe di Occupy Pedophilia. Probabilmente in tutti questi casi la lobby era troppo impegnata a tramare contro il papa per accorgersene. 

Oppure semplicemente i tempi stanno per cambiare. L'Italia si sta finalmente svegliando dal clericalismo che l'ha governata da sempre, complice l'infelice posizione geografica della curia papale. Il pensiero comincia a distaccarsi dall'autorità religiosa che ha regnato sovrana grazie all'ignoranza e alle elargizioni, per aprire una strada in direzione di una società libera. Non serviranno a nulla le campagne della stampa cattolica e gli slogan della Manif pour tous: proprio loro che parlano di legge naturale, dovrebbero sapere che per natura il progresso vince sempre. Prima o poi capiranno che l'amore non è una lobby. 

Samuel Boscarello per Cronache Laiche

Immigrazione: una proposta per Salvini

Accoglienza o respingimento? Ogni giorno barconi carichi di migranti toccano le nostre coste e di conseguenza rimangono molto a lungo in situazioni estremamente precarie, per colpa di molti fattori. Proprio per questo è troppo superficiale puntare il dito soltanto contro il governo o l'Unione Europea, quando in realtà i flussi migratori dai paesi sottosviluppati sono il logico prodotto di un intero sistema malato. Salvini, ma non solo, propone di reinvestire il denaro che oggi spendiamo per l'accoglienza utilizzandolo invece per “aiutarli in casa loro”. Cosa vuol dire tutto ciò? Consideriamo che i flussi principali provengono da Tunisia, Eritrea, Somalia, Gambia, Mali, Nigeria, Senegal, Pakistan e Libia. Questa gente non fugge dalla disoccupazione giovanile o dagli scarsi investimenti sull'università. In effetti, ad averle le università in quei paesi. I tragici problemi da affrontare sono mancanza di democrazia, sfruttamento da parte delle multinazionali, inefficienza delle istituzioni statali ed enormi squilibri nella distribuzione della ricchezza. Dover fronteggiare tutte queste questioni in un solo paese sarebbe già un'impresa titanica, figurarsi dover cercare di cambiare da soli nove stati! In che modo, poi? Davvero credete che sia possibile limitarsi a spedire qualche milione di dollari in uno stato dell'Africa equatoriale per risolvere ogni cosa?

Dunque a prima vista sembrerebbe più ragionevole puntare sull'accoglienza. Ma così facendo ci limitiamo a curare un sintomo, non la malattia. Il problema è che il sud del mondo è malato di globalizzazione. Nel secolo scorso il sistema capitalistico è diventato ancora più spregiudicato, espandendosi in modo abnorme ed inglobando al suo interno anche quelle zone del mondo che avevano appena conquistato l'indipendenza. Alle multinazionali e ai signori della guerra conviene che l'Africa e il Medio Oriente si trovino nella situazione attuale, perché un africano che lavora senza diritti e garanzie per una misera paga è decisamente più conveniente di un operaio occidentale tutelato dalle norme sindacali, che ha bisogno di molto più denaro per mantenersi. Così alla stabilità e al benessere della civiltà euro-americana si oppone la povertà estrema di quella africana, mediorientale ed in parte asiatica. La logica conseguenza sono le migrazioni. Adesso, possiamo fare due scelte diverse. È possibile accettare il selvaggio imperialismo economico, grazie al quale il petrolio libico alimenterà le nostre auto, l'oro ghanese scintillerà nelle gioiellerie e il titanio del Kenya verrà lavorato nelle nostre fabbriche. Chi se ne importa se 25 stati africani in questo momento sono coinvolti in conflitti armati, tanto sono poveri che ammazzano altri poveri. Cosa cambia se in Africa due bambini su cinque sono affetti da malnutrizione, colpa loro se non usano i contraccettivi. Che differenza fa se in Pakistan quasi la metà della popolazione è analfabeta, in Afghanistan addirittura il 62%, colpa dei loro governi che non puntano sull'istruzione. Possiamo anche chiudere gli occhi davanti a tutto ciò, ma siamo obbligati ad accoglierne le conseguenze. Oppure possiamo rifiutare tutto questo e ricostruire un mondo nuovo tramite la cooperazione internazionale. Dobbiamo agire sostenendo le forze democratiche, la diplomazia come mezzo di risoluzione dei conflitti, ma soprattutto bisogna rendere il Terzo Mondo economicamente indipendente.

In che modo? Il Fondo Monetario Internazionale ha la facoltà di cedere grosse somme di denaro alla condizione che i paesi riceventi rispettino alcune linee economiche dettate dal Fondo. Il problema è che oggi il peso di ciascun paese nelle decisioni prese all'interno dell'Fmi è proporzionale alla quantità di denaro che ogni stato mette a disposizione della cassa comune. Il paese che contribuisce di più sono gli Stati Uniti, ma non molto lontano troviamo Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia. Ebbene, se i paesi europei decidono di far fronte comune e puntare molto di più sul Fondo Monetario Internazionale possono influenzarne le scelte e stilare un progetto di crescita economica efficace, un Piano Marshall del Terzo Mondo. Quindi, la risposta alla nostra domanda iniziale non è semplicemente “accogliamoli in casa nostra” o “aiutiamoli in casa loro”. La cooperazione internazionale è un metodo infallibile e pacifico, ma le cose non cambieranno dall'oggi al domani. Nel frattempo i flussi migratori, caro Salvini, continueranno. Quindi dobbiamo integrare le due soluzioni. A breve termine l'accoglienza, e l'Europa ci aiuti perché ne abbiamo bisogno, a lungo termine la cooperazione. Se Salvini non capisce tutto ciò, allora i leghisti hanno un leader molto ingenuo. Se invece ne è cosciente, ancora peggio: vuol dire che è in malafede.


Samuel Boscarello per ParlaMente


martedì 22 luglio 2014

Intervista a ParlaMente per TVR Xenon - Video

ParlaMente si concede quattro chiacchiere e svela così i suoi sogni più arditi nonché la sua vocazione. Cos'è ParlaMente? Ne parlo insieme a Luca Giarmanà e Giorgio Di Pasquale su TVR Xenon.


Samuel Boscarello per ParlaMente

mercoledì 16 luglio 2014

Se non ci ascolteranno canteremo più forte

La questione palestinese è la più grande vergogna della diplomazia occidentale. Una storia che comincia da lontano, partendo dalla dichiarazione Balfour del 1917 e sviluppandosi in una spirale di kibbutz, immigrazione, petrolio e armi. Sembra assurdo, eppure parliamo di un conflitto lacerante nell’epoca in cui l’Onu si pone a salvaguardia della cooperazione non violenta, l’Europa è unita dalla democrazia e dalla bandiera a dodici stelle e la guerra sembra roba da libri di storia. Poi accade che una squadra aerea israeliana metta a ferro e fuoco la Striscia di Gaza e tutte le illusioni della civiltà euro-americana saltano irrimediabilmente.

Le colpe sono gravi e non risparmiano nessuno, da quel capitalismo selvaggio a cui conviene mantenere l’instabilità politica nelle zone più ricche di materie prime, fino al disinteresse verso le questioni di politica estera, che già Davide Ricca ha chiaramente sottolineato. Ciò che spaventa di più è il benaltrismo malsano. Lo si può riscontrare ovunque, nelle sedi di partito, sui social network, tra i capannelli che si formano nei bar attorno alla copia del giornale fresca di edicola. Di fronte all’abisso nero del mercato impazzito, dei licenziamenti e della cassa integrazione, dello spread, del rating e di altre cento parole il cui significato meno è chiaro e più fa paura, non c’è spazio per altre riflessioni. È questo il vero dramma della crisi: ci ha resi tutti più egoisti. Che senso ha curarsi dell’immigrato che scappa dagli squadroni della morte o del malato terminale che deve trasferirsi in Svizzera se vuole morire prima che la natura faccia il suo corso, se già il nostro futuro è di per sé minacciato?

Da questo punto di vista, figurarsi se dovessimo occuparci delle vicende che avvengono in un fazzoletto di terra in Medio Oriente! Eppure una visione così miope è proprio quella che non ci permette di superare gli ostacoli della realtà. Non bisogna stupirsi infatti se gli individui più disinteressati sono proprio i giovani, attanagliati dalla paura di sprecare la propria vita a inseguire chimere e poi ritrovarsi con un assegno di disoccupazione in mano. Parlo in terza persona, poiché gli altri potranno anche arrendersi al nichilismo, io no. Da rappresentante degli studenti al Liceo “Secusio” di Caltagirone, tra manifestazioni e assemblee ho incontrato gente che viene colpita dalla sindrome di Tourette non appena sente parlare di politica e persone che il 25 aprile andrebbero in giro con il lutto al braccio. Ma ho visto anche tanti ragazzi che vogliono agire, animati dalle intenzioni migliori e da un acuto spirito critico.

È vero, non siamo quelli de “la fantasia al potere” e delle grandi lotte studentesche, ma consideriamo che la nostra età è il crepuscolo delle ideologie, a causa del trasformismo politico e della commercializzazione di ogni cosa. Non cerco di giustificare l’inerzia scaricando la colpa sulla società: lo hanno già fatto in troppi e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma l’ambiente in cui cresce un giovane italiano è la Gaza delle passioni, tra pregiudizi duri a morire e un consumismo elevato all’assoluto. Se prima nelle piazze parlavano Berlinguer e Pertini, adesso assistiamo ad un comico che vuole spaccare tutto e ad un pregiudicato che spaccia dentiere. Ho visto insegnanti prendere a badilate le aspirazioni di comuni maturandi con la rassegnazione di chi a quel crepuscolo vi assiste impotente.

Ebbene, chi trova solo la forza di lamentarsi senza cambiare nulla si limita a osservare le pennellate di rosso e blu mentre si mescolano, il disco solare ormai basso all’orizzonte. Poi c’è chi non vuole restare fermo a guardare, ma scalpita per entrare in azione ed è animato da una fame insaziabile. Siamo noi, riuniti in piccole colonie come gli “esiliati dal mondo delle favole” di Mannarino. Il nostro cenacolo potrà chiamarsi Ateniesi o ParlaMente (un progetto con cui io ed altri ragazzi cerchiamo di riunire chi a guardare il tramonto non ci sta), ma i nomi non contano se consideriamo ciò che siamo davvero: romantici rivoluzionari, che hanno bisogno di unirsi ed infondere fiducia a se stessi, a chi l’ha persa e a chi non l’ha mai avuta. Continueremo a lottare con le idee e battere alle porte di coloro che non ci ascoltano, a difendere la libertà e cantare canzoni di pace. Se non ci ascolteranno canteremo più forte.
Samuel Boscarello per Ateniesi

domenica 13 luglio 2014

Salvini contestato in Sicilia - Caltagirone (CT)

Il segretario federale della Lega Nord Matteo Salvini, giunto in mattinata a Caltagirone (CT) dopo aver visitato il Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo - in cui ha proposto la costruzione di strutture del genere in Nordafrica - è stato duramente contestato al termine della sua visita. Un gruppo di persone lo ha atteso all'uscita con cartelli che lo additavano come "persona sgradita" e bandiere del movimento No Muos. Salvini è entrato in auto protetto da un cordone di agenti delle forze dell'ordine e si è diretto verso il Mausoleo di Don Luigi Sturzo, nel centro storico della città, seminando i contestatori.
Noi di ParlaMente eravamo lì per documentare i fatti e porre alcune domande al leader leghista, che a causa del tumulto non siamo riusciti a raggiungere. In particolare avremmo voluto chiedergli:

1- Il suo partito ha sempre manifestato tendenze autonomiste, quando non separatiste, rispetto al Meridione. Nonostante ciò, lei fa leva sulla questione immigrati per ottenere voti al Sud. Non le suona populista tutto ciò?

2- Lei ritiene di dover destinare il denaro riservato all'operazione Mare Nostrum per aiutare gli extracomunitari nei loro paesi d'origine. In senso pratico, con quali mezzi e istituzioni intende effettuare questa  grande operazione?

3- Riguardo alla politica interna, vista la crisi di Forza Italia, se si costituisse un asse tra Fi, Ncd e Fdi la Lega Nord che posizione assumerebbe?

4- Ha firmato per indire le primarie del centrodestra e pare che lei possa essere il candidato favorito nella competizione per la leadership. Come pensa di coniugare l'indipendentismo della Lega con l'ideologia unitaria di Fdi, quella liberale di Fi e le idee cristiano-democratiche di Ncd senza provocare fratture?

Samuel Boscarello per ParlaMente

martedì 8 luglio 2014

Critica della ragion grillina

Il Movimento Cinque Stelle è un singolare caso comunicativo. Lungi dalla classificazione dei pentastellati come forza di sinistra o di destra, la loro retorica è una delle più efficaci. Anzi, è proprio l'impossibilità di qualificare il M5S con una precisa ideologia politica a costituire il punto di forza dell'intero sistema comunicativo, che attinge alle più disparate fazioni, dagli ex comunisti ai nostalgici del ventennio, sotto un'unica egida: “destra e sinistra sono solo congiunture”, come canta Ognuno vale uno, l'inno del movimento. In altre parole, un esempio del contraddittorio armamentario costituito dalle idee propugnate già dai tempi del primo V-Day. Partecipazione diretta del cittadino alla vita politica, totale indipendenza della stampa dal potere, onestà e disponibilità al dialogo con forze di ogni orientamento sono valori più che nobili, ma messi in pratica nel peggiore dei modi. 

La democrazia diretta è solo una maschera che ricopre il volto del tandem Grillo-Casaleggio, in questo modo libero di indire votazioni di massa sul modello Gesù o Barabba nel caso delle famigerate espulsioni oppure di lasciare agli attivisti decisioni politiche di grande peso, consapevole allo stesso tempo di poter influenzarne l'esito in modo decisivo. Si prenda ad esempio la recente decisione sul gruppo europeo di appartenenza del M5S. Tre scelte a disposizione degli iscritti di cui una praticamente inutile, ossia il rifiuto di aderire ad alcun gruppo a costo di pesanti limitazioni dell'attività parlamentare. Esclusi a priori i Verdi, le opzioni rimanenti sono l'Efd di Farage e i conservatori dell'Ecr. A parte i link ai rispettivi video di presentazione dei due partiti, lo specchietto riassuntivo delle rispettive caratteristiche è imparziale come un manifesto di propaganda: alle poche fredde righe sull'Ecr si contrappone l'apologia dell'altro, in particolare dell'Ukip, trasformato improvvisamente in un partito aperto e progressista. Ma soprattutto ad influenzare il risultato finale, l'ovvio trionfo dell'Efd con il 78% dei voti, è un incipit che loda il gruppo come “l'opposizione più strenua al federalismo basato sull'austerity e alla concentrazione del potere nelle mani dei burocrati non eletti a Bruxelles” nella scorsa legislatura. Per non parlare del contrasto “al potere delle grandi banche, delle multinazionali e all'eccessiva burocrazia”, sirena ammaliante nei confronti di una certa base populista che alimenta il M5S. 

Cambiano i temi, ma la strategia è sempre la stessa e consiste nella demonizzazione assoluta dell'avversario, concentrata in poche parole chiave che trovano terreno fertile nelle tendenze cospirazionisteriscontrabili in parecchi attivisti e simpatizzanti, ossia lo straordinario talento di spiccare voli pindarici nel tessere improbabili tele di potere fatte di lobby, multinazionali, banche, politici e, naturalmente, massoneria. L'ossessione verso il potere costituito costringe i grillini a vanificare ogni collaborazione proficua con l'avversario, considerato alla stregua di un cane rabbioso in procinto di mordere e propagare la sua malattia, e a santificare il web come Altare della Libera Informazione. Con il risultato di prendere cantonate clamorose (magistrale la papera del deputato Vega Colonnese sull'ordine del Viminale di annullare parte dei voti dati ai Cinquestelle alle Europee), poiché viene dimenticato un particolare marginale, cioè che qualunque grafofilo in cerca dei warholiani quindici minuti di fama è in grado di scrivere enormi panzane e renderle virali. 

Questo vecchio sistema contaminato dalle macerie della Prima Repubblica e da un capitalismo malato genera insicurezza, malcontento e disorientamento tra i cittadini. Così la retorica scontrosa di Grillo, le sguaiate contestazioni dei suoi parlamentari, le promesse di vendetta sulla “casta” sublimano la protesta in manifestazioni di violenza verbale contro chiunque dissenta dal pensiero ortodosso, accusandolo di collusione con i partiti (queste entità demoniache alla cui forma il M5S è, suo malgrado, così vicino). Un po' come si usava fare con i dissidenti trockisti ai tempi di Stalin. Del resto, lo stesso leader genovese ha ammesso a più riprese di essere oltre il totalitarismo, nell'impeto delle sue filippiche in cui annuncia processi pubblici per i giornalisti, i primi ad essere colpiti dallo tsunami reazionario. Chiamatele provocazioni, boutade o sciocchezze, non potrete cambiare quel che sono in realtà: incitazioni all'odio. Il guaio è che la gente gli crede pure.

Samuel Boscarello per ParlaMente

lunedì 12 maggio 2014

Intervista ad Alessio Villarosa: "Equitalia? Berlusconi si avvicina a noi"

Intervenuto sabato scorso a Caltagirone (CT) in vista delle elezioni europee, il deputato M5S Alessio Villarosa parla della proposta di abolire Equitalia, avanzata da Berlusconi pochi giorni fa. "E' una nostra proposta di legge, - precisa - quindi è Berlusconi che si avvicina a noi. Se vogliono darci manforte, per noi va benissimo". Riguardo alle possibili alleanze a Strasburgo, glissa: "Bisogna valutare tutti i programmi".


Samuel Boscarello per ParlaMente

domenica 20 aprile 2014

Hasta Bergoglio siempre: la Chiesa (non) si rinnova

Da un anno a questa parte i canali d'informazione sono invasi da un personaggio il cui nome è diventato, per forza di cose, di grande familiarità. Il giudizio è controverso: certi vedono nel suo pensiero una grande forza di cambiamento, alcuni si affidano alle sue parole per difendere le istanze reazionarie, mentre altri criticano aspramente lui e il suo seguito. No, non mi riferisco a Beppe Grillo, ma a Papa Francesco. La sua figura è stata oggetto di un singolare caso di idealizzazione in vita, durante un intervallo di tempo particolarmente breve.

L'aspetto semplice, le forti invettive rivolte ai potenti, le doti da comunicatore hanno dato luogo a due raffigurazioni. Da una parte l'uomo umile e determinato al cambiamento, vicino ai poveri e ostile al clero ultra-conservatore, uno che abbatte i limiti della dottrina sociale cattolica e (udite, udite!) apre spiragli alle battaglie progressiste sui diritti civili. Dall'altra la guida carismatica che allo stesso tempo incarna il messaggio evangelico e difende a spada tratta il tradizionale approccio della Chiesa riguardo a politica e società, ossia uno scandalizzato “no” ad ogni cosa che possa intaccarne il rigido moralismo. Due interpretazioni praticamente opposte, nonché totalmente sbagliate.

Ciò che è accaduto tra il 28 febbraio e il 13 marzo 2013 non è un semplice passaggio di consegne, ma un ribaltone manageriale. Le esigenze del pubblico sono cambiate molto negli ultimi anni, così la Chiesa, come ogni azienda multinazionale che si rispetti, ha provveduto a riformulare il target. Via il vecchio teologo incartato, solare come la Merkel in una giornata di maltempo e pressoché incapace di gestire maggiordomi fedifraghi e preti dalle mani lunghe, con il rischio di un'emorragia di fedeli. Meglio lasciare spazio ad un brav'uomo che ha vissuto tra la gente per la gente, dalla personalità così telegenica da sembrare il nonno di Matteo Renzi. Tralasciando le interpretazioni mistiche su quanto l'ispirazione divina abbia lavorato bene dentro la Cappella Sistina, si potrebbe pensare che questo sia l'atto più rappresentativo di una Chiesa che vuole finalmente cambiare se stessa dall'interno. Ebbene, si tratta solo di un tremante velo di Maya che aspetta di essere squarciato.

Se l'Europa, cuore pulsante del potere pontificio da due millenni, è oggi insidiata dalle forze oscure che la trascinano verso l'abisso liberal-demoniaco, allora bisogna mutare l'obiettivo della gerarchia vaticana. Si mette al timone della barca un uomo coraggioso che ispira fiducia, con il compito di mandare alla chiglia i marinai scapestrati e ricevere i complimenti dei pescatori appena rientrato in porto. Ma la verità è che quei lupi di mare non saranno mai disciplinati: i potenti in tonaca vogliono solo un cambiamento di facciata, una rivoluzione che lasci tutto com'è. E il complice di tutto ciò, consapevolmente o meno, è proprio Papa Francesco. Dalla sua elezione hanno tutti cercato di portarlo dalla propria parte (il M5S, per non sbagliare, lo ha subito arruolato in truppa), così adesso va forte l'immagine di un papa “più a sinistra della sinistra”. Intanto è miracolosamente scomparsa la pedofilia negli ambienti ecclesiastici, i cardinali pascià si sono trasformati in poveri fraticelli e le lotte di potere sono solo un ricordo, almeno stando a quanto trapela dai media. Sarà un caso?

Si mettano il cuore in pace i fan di Ernesto “Che” Bergoglio: ogni volta che si parla di “aperture”, ecco la provvidenziale conferenza stampa di padre Lombardi, interessante ed animata come un congresso dell'Udc, in cui si chiarifica tutto, con il sottofondo gongolante dei parteggiatori diFrancesco Franco. Insomma, è evidente che il papa non indossa né l'eskimo né la divisa del Caudillo, ma gli innocenti indumenti bianchi di chi con un gran sorriso si ostina a difendere una Verità (il maiuscolo è d'obbligo, mi raccomando) che va stretta al mondo. Eppure sarebbe un gesto degno di grande ammirazione, anche da parte dei non credenti, se un giorno il capo della Chiesa si affacciasse al balcone e cominciasse a parlare di contraccezione come mezzo di lotta all'Aids (andatelo a spiegare ai missionari in Africa), di universalità dell'amore tra gli esseri umani indipendentemente dal loro genere, di rivoluzione delle idee da accompagnare al progresso scientifico. Bene, con queste parole mi prenoto un posto nella prima capsula criogenica in grado di ibernarmi fino al 3014. Forse Francesco XV esaudirà i miei desideri.

Samuel Boscarello per ParlaMente

martedì 15 aprile 2014

Le donne siciliane ce l'hanno fatta (nonostante tutto)

Pavia e Caltagirone non hanno molto in comune. L’una adagiata sul Ticino, meta accogliente per universitari e pellegrini sulla via Francigena. L’altra incastonata tra i monti Erei, barocca nell’aspetto e bluesnella vita di tutti i giorni. Ma è da queste due città, separate da quasi mille chilometri, che passa un’iniziativa destinata a fare il giro della penisola. “Donne che ce l’hanno fatta” è il suo nome, il lavoro al femminile la sua vocazione. A realizzare l’incontro è l’associazione Adessodonne 3.0 insieme a Sportello Donne, un manipolo di signore e signorine a cui, sentendo le loro storie, non si addice la tradizionale definizione di “gentil sesso”. Anzi, proprio per rovesciare gli stereotipi di genere, che con la connivenza di un sorridente perbenismo hanno accompagnato fino ad oggi la società italiana, le donne siciliane sono qui.

Chiamate a turno dall’eclettica moderatrice-organizzatrice Giovanna Seminara, si alzano e raccontano le loro storie, romanzi di vita reale dal finale thriller. C’è chi afferma di potersi sentire orgogliosamente “una che ce l’ha fatta”, altre preferiscono il basso profilo di chi cerca di farcela. Va bene così: a forza di camminare a testa bassa si arriva sani e salvi a destinazione. Il premio consiste in un attestato di merito con una poesia di Fabio Gagliardi scritta in calce, senza troppi clamori. In fondo si capisce subito che, se si è in cerca di auto-celebrazioni sguaiate, questo è il posto meno indicato. Basta ascoltare le testimonianze di chi ha dovuto affrontare gravissimi problemi familiari, ostacoli sul campo lavorativo e soprattutto quella fastidiosa predisposizione a rifiutare l’emancipazione sociale femminile. Siamo nella regione in cui solo una donna su tre trova lavoro, nel territorio in cui il culto del passato si trasforma in rimpianto e scoramento per il presente. Ciò non aiuta affatto.

Non è un caso che proprio a Caltagirone si premino gli ingegni femminili: la zona, sotto il costante cono d’ombra di Catania e dell’hinterland etneo, si trova in un acquitrino di decadenza politica ed economica. Verlaine ci si tufferebbe, i commercianti affogano. Così diventa un merito per una ceramista aver inventato un innovativo stile decorativo, anche quando la crisi dell’artigianato locale, un tempo fiore all’occhiello del paese, mette in pericolo la stabilità lavorativa dei dipendenti di una piccola impresa a conduzione familiare. E ancora donne sindacaliste, insegnanti, missionarie (Suor Olga, che della sua Colombia conserva la cadenza ispanica e i modi solari, come possono esserlo solo quelli dei popoli sub-tropicali). Si raccontano le siciliane impegnate in politica, come Alessandra Foti, ex vicesindaco della città e candidata per il centro-sinistra alle ultime amministrative, e persino la studentessa liceale Concetta Fargetta, che non le manda a dire e afferma di voler inseguire il sogno di diventare procuratore generale, citando Oriana Fallaci nel passo del “mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini” e mettendo al tappeto la platea con il suo fare conciso e determinato.

Maggioranza rosa tra le poltrone, ma non assoluta ed è già qualcosa: segno che anche il genere maschile sta comprendendo l’importanza dell’uguaglianza tra gli individui della società, in cui è necessario che si infranga la cappa di piombo della distinzione tra l’uomo fabbro del suo destino e la donna-angelo (del focolare). Un Paese si definisce civile solo se promuove il merito, senza se e senza ma. Per raggiungere l’agognato obiettivo su cui si sprecano tante parole, ma ad oggi pochi fatti, è obbligatorio rovesciare quella mistura di ipocrisia e pressappochismo che porta a due conclusioni ugualmente pericolose: da una parte i ritornelli del “cosa c’è di male?”, patetiche giustificazioni dello status quo, dall’altra la convinzione che rimboccarsi le maniche spetti sempre agli altri, interpretando molto arbitrariamente l’ironia di Gaber (“la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente!”). Cari uomini e donne d’Italia, solo uniti possiamo concretizzare i panegirici sulla libertà. Allora sì che ce l’avremo fatta.

(Foto: Giovanna Seminara)

Samuel Boscarello per Ateniesi

lunedì 24 febbraio 2014

FIL, ovvero la misura della felicità

“Il denaro non fa la felicità”. Quante volte lo si dice, un po’ per effettiva convinzione, un po’ storcendo il naso, e magari ribattendo che i soldi non renderanno un uomo felice, ma gli danno senza dubbio una mano considerevole. Eppure l’esperienza di un singolo stato, incastonato tra le montagne orientali come un diamante annerito, può farci ricredere. Il Bhutan è uno dei paesi più poveri in tutta l’Asia, con un PIL pro capite che a malapena raggiunge i duemila dollari. In relazione ad un bhutanese, un cittadino italiano è ricco mediamente sedici volte di più. Il territorio in cui vivono i Drukpa (abitanti della “terra del drago”, si definiscono orgogliosamente) è un lembo di terra soffocato dalla vastità dell’India a sud e della Cina a nord. Uno di quei paesi che probabilmente non prende posto in nessun libro di storia, ma che è pervaso da un senso di spiritualità a metà tra il sacro e il profano, nei monasteri buddisti costruiti a picco sugli strapiombi, che sembrano avvinghiarsi con tutte le forze ai versanti rocciosi delle poderose montagne per non scivolare giù. Sarà per questo che il Bhutan è diventato la patria del GDH, acronimo inglese per Gross National Happiness. In altre parole, Felicità Interna Lorda. È immediato il richiamo a quel PIL che suscita di questi tempi tanta apprensione ed è entrato a far parte della sfera delle piccole preoccupazioni quotidiane (“come va il PIL? Si è abbassato lo spread? Hai già dato un’occhiata al rating?”, ormai sembriamo medici nevrotici che passano le giornate in corsia temendo di perdere i pazienti da un momento all’altro), tanto che il penultimo re Jigme Singye Wangchuck ne ha fatto lo slogan del proprio regno.


Quando nel 1972 prese il potere, il suo paese era ancora una monarchia assoluta retta dal Druk Gyalpo, il Re Drago. La sua missione fu fin da subito quella di modernizzare il paese, puntando sull’istruzione e sui diritti: oggi il Bhutan elegge i propri rappresentanti e ha una Carta costituzionale. Sulla facciata della Scuola di arti tradizionali nella capitale Thimphu, ottantamila anime, si può leggere il concetto fondamentale del pensiero di re Singye: La Felicità Interna Lorda è molto più importante del Prodotto Interno Lordo. E, statistiche alla mano, questa politica appare vincente. La rivista Business Week, che ha stilato uno speciale ranking della “felicità di stato”, incorona la Danimarca, seguita nelle prime dieci posizioni da nazioni come Svizzera, Austria, Islanda e – la sorpresa che non ti aspetti – l’ottava posizione è occupata proprio dal Bhutan. Ben più in alto degli Stati Uniti, ventitreesimi, o di altri colossi come la Cina (82°) e la Russia, addirittura a ridosso delle ultime posizioni. Cosa vuol dire? Semplice: il denaro potrà anche comprare ogni genere di bene materiale, ma avere le casse piene non aumenta affatto il benessere di una nazione. A Thimphu non c’è un aeroporto, le periferie non sono bracci grigi di una gigantesca piovra che ingloba il paesaggio circostante, come le giungle urbane di Città del Messico e Tokyo, o giganteschi agglomerati in espansione inarrestabile. La capitale è immersa in una vallata verde, niente grattacieli e i poli industriali sono tutti concentrati in un unico quartiere. Persino i semafori sono stati eliminati, perché troppo “impersonali”, mentre nelle scuole si insegna la ricchezza dell’identità culturale bhutanese e le case devono per legge essere decorate secondo la tradizione.

Nella FIL sono racchiusi concetti che oggi noi stiamo appena scoprendo. Il rispetto per la natura, l’importanza dell’istruzione e del futuro dei giovani, la conservazione dei diritti. Questo è il progresso di cui abbiamo bisogno per vincere la crisi che stiamo attraversando, di ideali prima che economica. Immaginate un’Italia più felice, vale a dire in cui sia premiata l’onestà e disprezzata la corruzione, in cui l’integrazione prevalga sulla ghettizzazione (ricordando che siamo stati anche noi migranti) e l’uguaglianza abbia la meglio sull’ignoranza. Ci siete riusciti? Bene. Adesso rimbocchiamoci le maniche e cominciamo a fare sul serio, perché tocca a noi.

Samuel Boscarello per Cogitoetvolo

martedì 21 gennaio 2014

Intervista a Gianni Cuperlo: "Spendiamo troppo poco in innovazione e ricerca"

Foto: lettera43.it

Gianni Cuperlo arriva trafelato. La mattina è umida e piovosa, l’aria densa come quella che si respira in via del Nazareno. È il giorno in cui si tirano le somme di un incontro che si candida al titolo di “Evento Politico del 2014”: se l’incontro tra Renzi e Berlusconi sia la fine del ventennio e (o) l’inizio di una nuova stagione politica di riforme non si sa, ma per i media è manna nel deserto. Il presidente del Pd risponde alla salva di domande, poi bocca cucita. Non è il momento di parlare di legge elettorale, non qui ed ora.

E’ domenica 19 gennaio e siamo a Caltagirone, quarantamila anime arrampicate su una collina in provincia di Catania. Il paese che beffò il Duce con lo spettacolare panorama marittimo (nell’entroterra siciliano) che avrebbe dovuto fare da scenario alla nuova città di Mussolinia. Il luogo che diede i natali all’eclettico Don Luigi Sturzo: statista fondatore del Partito Popolare e fermamente antifascista, ma anche pubblicista, appassionato di musica, teatro e critica letteraria. Cuperlo ringrazia Pierluigi Castagnetti, un passato tra i nuovi Popolari di Martinazzoli prima di uncursus in quattro legislature tra La Margherita e il Pd, che da presidente della associazione “I Popolari” fa gli onori di casa, in occasione del novantacinquesimo anniversario dell’Appello ai liberi e forti.

Si parla di passato e futuro, divisioni e convergenze. La necessità è riportare l’economia alla semplicità, la politica alla moralità senza colore di partito, secondo il solco tracciato da Sturzo a Berlinguer e scomparso nella palude di Mani Pulite. Vallo a spiegare ai giovani, peraltro molto pochi in sala. Comprensibilmente disaffezionati e immeritatamente disillusi, svuotano i loro paesi in un’odissea che li porta dalle città universitarie all’estero, probabilmente in via definitiva, con in tasca una laurea che non dà opportunità di lavoro.

Quella delle università “è un’ampia riforma complessiva che bisogna fare: – rileva Cuperlo ad Ateniesi – rafforzare il rapporto sul territorio tra i poli universitari e le strutture economiche produttive, anche industriali”. Proprio alle industrie e alle imprese è indirizzato il suo monito. “Bisogna che facciano uno sforzo nella direzione giusta. In Italia si investe troppo poco in innovazione e ricerca, lo fanno anche le imprese”. Una misura da Jobs Act, che però non ha ancora preso posto all’interno del testo programmatico. E a proposito del previsto assegno universale per chi perde il posto di lavoro: “Ci sono diverse soluzioni tecniche. Il Parlamento Europeo ha votato una direttiva sul reddito familiare, quello individuale ha un carattere diverso e oneri di spesa molto più significativi”. Il primo passo verso il reddito minimo garantito? “Non c’è dubbio che bisogna estendere il sistema degli ammortizzatori sociali anche a chi oggi non è garantito, soprattutto lavoratori discontinui di vecchia e nuova generazione. Vedremo anche dal punto di vista del merito e della tecnica quale sarà la soluzione”.

Nel frattempo i giornali parlano di pace fatta tra centrosinistra e centrodestra e ripropongono il videomessaggio di Berlusconi. Grillo invece chiama a raccolta gli iscritti per formulare la proposta pentastellata di legge elettorale, sotto la guida di Aldo Giannuli. Chissà se anche il genovese vedrà recapitarsi un invito in casa Pd. Nel dubbio, il giudizio di Cuperlo è salomonico. “Le do il telefono di Renzi. Lo chiami, si faccia dare la risposta e poi me la dica”.

Samuel Boscarello per Ateniesi.it

giovedì 9 gennaio 2014

Legge elettorale: dove ci porta "Le Mattaraille"?

Non c’è che dire, bisogna fare i complimenti a Enrico Letta. Ad aprile, mentre il neo-premier giurava con la sua squadra di governo e fuori scoppiava il pandemonio, non in pochi pensavano che non sarebbe arrivato a mangiare il panettone. Invece, nonostante gli inevitabili capitomboli che costituiscono gli effetti collaterali delle larghe intese, Enrico è ancora lì. Un piccolo traguardo da aggiungere alla bacheca personale, insieme al non pervenuto alleggerimento del peso fiscale, all’aver rimandato il reddito minimo garantito e al mezzo silenzio sui tagli ai costi della politica. L’abolizione del finanziamento pubblico (chiamiamolo così, fa meno ipocrita) ai partiti? Bene. Ma se funzionerà è ancora da vedere. Tuttavia c’è una cosa in merito alla quale tanto si parla e poco si fa. Non stiamo parlando del precariato, ma della legge elettorale.

Del Porcellum, che non è un riferimento alla filosofia politica dei suoi fautori, se ne dicono di tutti i colori. Approvata in ossequio a un democraticissimo ricatto di Silvio Berlusconi (o vinco io o cade il governo), ha avuto tempo di lasciare il segno su due legislature prima di essere dichiarata incostituzionale dalla Corte. Non sappiamo se Letta arriverà anche a scartare l’uovo pasquale (il che in parte dipenderà anche da Renzi), ma certo è che un’altra tornata elettorale calderoliana sarebbe insostenibile. E con l’attuale situazione di stallo politico, non resterebbero molte alternative alla chiusura della diciassettesima legislatura. Così la prima cosa che l’Italia ha da fare è guardarsi intorno, come uno studente impreparato durante un compito in classe, e vedere se tra i banchi vicini c’è qualcosa di buono da cui poter trarre spunto.

Adesso, il centrosinistra vuole il doppio turno alla francese e il centrodestra berlusconiano preferisce il reintegro del vecchio sistema misto, con buone probabilità di influenzare anche la posizione di Ncd. Con tali presupposti, ilMattarellum francofono di Renzi – chiamiamolo Mattaraille – appare come una bozza ben delineata, forse migliorabile e da chiarificare in alcuni punti, nel complesso proponibile. Innanzitutto il primo fattore positivo è l’attuabilità politica. Mantenere il rapporto 75:25 tra quota maggioritaria e proporzionale, e nello stesso tempo introdurre il doppio turno in caso di mancato raggiungimento del traguardo fissato intorno al 40%, potrebbe essere una via per un’intesa tra le parti senza scendere a patti col diavolo. C’è però la possibilità che il “premio di governabilità” di 75 seggi possa diventare un’arma a doppio taglio. Se da un lato infatti può garantire una maggiore stabilità in un momento come questo, in cui la maggioranza assoluta è una chimera, dall’altro si rischia di andare a parare in un meccanismo analogo a quello che nelle ultime elezioni ha fatto sì che meno di trecentomila voti si trasformassero magicamente in 120 seggi alla Camera. Una sproporzione democraticida.

Infine rimane da affrontare la questione di una forzatura del bipolarismo, in un Paese in cui al momento vi sono tre forze politiche che praticamente si equivalgono. Supponiamo di votare con questo sistema: il centrosinistra è in vantaggio, ma non abbastanza per vincere al primo turno. Seguono centrodestra e M5S. A questo punto si giunge a uno snodo fondamentale, che porta alla selezione dei due candidati principali per la seconda tornata. Ecco che la presenza grillina, che all’apparenza potrebbe sembrare disturbante come un discorso di Giovanardi, potrebbe rivelarsi l’occasione di un’alleanza fondamentale per ottenere un governo forte, a condizione che essa sia alla pari e con punti chiari e condivisi.

In sintesi, quali sono i passaggi chiave? In primis, trovare una soluzione ragionevole (parola insolita, vero?) con le altre parti, senza piegarsi alla volontà altrui. In seguito andare al voto con il Mattaraille e trovare un’intesa costruttiva con Grillo. Renzi ci sta già provando. Dalle parti di Genova c’è ancora fredda chiusura, ma il leader del Movimento non può non considerare quella fetta di elettori delusi dalla mancata intesa con il Pd, condita dalle battute al vetriolo della Lombardi: sbattere la porta in faccia a ogni possibile dialogo, trincerandosi dietro gli hashtag, sarebbe un “Suicidio a Cinque Stelle”. E ciò non vale solo per Grillo. Dunque per favore, Matteo e Beppe, non litigate.

E se proprio non funzionasse sbirciare il compito del vicino di banco, le alternative non mancherebbero di certo. Da qualche mese si parla di Cangurum, ossia del modello australiano. L’elettore vota non uno, ma tutti i candidati, classificandoli in base alla preferenza. Se la somma dei primi voti non porta a maggioranza assoluta, si elimina la coalizione dalla percentuale più bassa e le seconde scelte vengono ripartite tra i candidati ancora in lizza, fino a raggiungere il fatidico 50% più uno. Efficace e indolore, senza inciuci e larghe intese. Importarlo con le dovute modifiche in Italia sarebbe, a mio avviso, come chiedere un suggerimento allo studente modello seduto dalla parte opposta della classe: audace e provocatorio, ma se funzionasse…

(Foto: notizienazionali.net)

Samuel Boscarello per Ateniesi

giovedì 2 gennaio 2014

Aborto: lettera aperta ai pro-life

Cari pro-life,
Prima di tutto vi dico che non mi definisco un pro-choice. A dire il vero non capisco l'esistenza di questa etichetta. Perché chi difende i diritti delle donne in gravidanza (o almeno, di una parte di loro) deve essere "pro-choice", come chi si pone a tutela dell'uguaglianza tra coppie eterosessuali ed omosessuali deve vedersi definito "gay friendly"? Faccio un esempio: oggi non credo ci sia un termine definito per chi non fa discriminazioni razziali. E', per fortuna, una cosa normalissima considerare europei, cinesi ed africani sullo stesso piano, semmai gli idioti sono coloro che sostengono il contrario. Ebbene, per me sostenere i diritti di una donna che si trova ad affrontare una gravidanza è una cosa normale, che non ha bisogno di essere definita ulteriormente.
Ma passiamo ad un elemento fondamentale del dibattito sull'aborto, in questi giorni particolarmente acceso a causa della linea restrittiva (reazionaria, la definisco io) imposta dal governo Rajoy in Spagna. Come spiegato in questo articolo di Chiara Trompetto per Ateniesi, noi non siamo "contro la vita". Se lo fossimo dovremmo sostenere l'obbligo di aborto per tutte le gravidanze indesiderate. Ma siamo coscienti che ovviamente questa sarebbe una barbarie, un'imperdonabile irruzione dello stato all'interno di quella inviolabile sfera intima che costituisce la vita privata dell'individuo. Il diritto di cui parliamo noi è quello di poter scegliere, in quanto la legge deve lasciare la possibilità di scelta ai singoli riguardo ad una questione così delicata. Io voglio un'Italia che alle donne dal pancione indesiderato dica: "Bene. Hai la possibilità di scegliere se continuare o fermarti qui, sapendo che sarai tutelata allo stesso modo, qualunque sarà la tua scelta". Vi prego, non confondete il diritto con la morale: il primo deve essere difeso a spada tratta nella vita pubblica e nelle aule parlamentari, la seconda è una cosa che riguarda la propria persona e va affrontata come e dove pare più opportuno: in camera propria, in clinica o in un confessionale.
Non siamo ipocriti. Sappiamo che la legalizzazione dell'aborto non serve ad eliminare le IVG, ma ad interrompere il circolo vizioso (e spesso mortale) degli interventi clandestini, dei tentativi casalinghi e del contrabbando di farmaci come la tanto discussa pillola RU486, assunti senza alcun controllo medico. Gli obiettori di coscienza vanno limitati in numero e va garantito in ogni struttura ospedaliera del personale disponibile ad effettuare interruzioni di gravidanza. Solo così, rendendo i diritti a pieno appannaggio dei cittadini, si può sconfiggere la piaga dei rischiosissimi rimedi fai-da-te. Volete che non ci sia più bisogno di ricorrere all'aborto? Allora informate e informatevi, parlate anche voi dei contraccettivi e incoraggiate il loro uso. Distruggiamo tutti insieme il tabù del sesso, figlio dell'oscurantismo. Ma sappiate che non esiste l'anticoncezionale perfetto e che non tutte le donne che si presentano in consultorio sono delle ragazzine ingenue che si sono spinte un po' troppo in là.
Vi chiedo anche di non tacciare di omicidio le donne che abortiscono. Se alcuni di voi (non tutti, ne sono certo) credono che l'aborto sia un gesto di codardia, una strada più breve per scrollarsi di dosso le responsabilità delle proprie azioni, allora mi farei qualche domanda su chi sia il barbaro insensibile in questa situazione. O forse siete convinti che chi abortisce lo faccia a cuor leggero, che questo atto non rappresenti un trauma per la donna. Ebbene, l'aborto rappresenta in realtà una grande assunzione di responsabilità.
Vi definite "per la vita", ma avete mai pensato al perché il più delle volte si ricorre all'interruzione volontaria di gravidanza, se si eccettuano i casi in cui vi è una malattia del feto o della madre? E avete pensato che volete togliere la possibilità di abortire anche a chi sa di non riuscire con le sue possibilità a garantire al figlio l'indispensabile per una vita dignitosa, con il rischio di compromettere seriamente la propria salute fisica e psichica (oltre a quella del bambino, naturalmente)?
Ora vi saluto. Probabilmente alcuni avranno compreso il mio punto di vista, pur non condividendolo. Sicuramente qualcuno di voi ha smesso di leggere dopo il primo capoverso, dandomi dell'imbecille, o qualcun altro è giunto fin qui, traendo le stesse conclusioni. Non preoccupatevi. Anche se voi non capite me, sono io che vi comprendo. Ma se qualcuno ha tempo e voglia di raccogliere questa palla lanciata nella caotica mischia in area dei dibattiti etici, sarò ben lieto di ascoltarlo. Vi lascio con una domanda:
Voi vi ritenete difensori della vita, ma vi siete mai chiesti quale vita state difendendo?

Samuel Boscarello