STASERA CON ParlaMente 18 luglio 2014

sabato 27 luglio 2013

I "grillini" d'Australia: nel cuore del Partito Wikileaks

Che la nuova frontiera della politica fossero i partiti 2.0 si sapeva già. Ma la notizia che ha fatto in poche ore il giro del mondo è che uno degli uomini più ricercati del pianeta ha inaugurato, in videoconferenza dall'ambasciata ecuadoregna a Londra, il Wikileaks Party. Julian Assange, dopo le rivelazioni pubblicate sul celebre sito che hanno messo in imbarazzo i diplomatici di mezzo mondo, dichiara ancora una volta lotta aperta al sistema e lo fa candidandosi al Senato dell'Australia, suo paese d'origine, insieme ad altri sei esponenti del partito in lizza per gli stati di Victoria, Nuovo Galles del Sud e Australia Occidentale.

VICTORIA

Julian Assange - Giornalista con un passato da hacker, co-fondatore di Wikileaks e ricercato per spionaggio dagli Usa e con l'accusa di molestie sessuali dalla Svezia, si trova in status di rifugiato politico all'interno dell'ambasciata ecuadoregna a Londra.




Leslie Cannold - Scrittrice ed attivista, è presidente di Reproductive Choice Australia e sostenitrice dei diritti delle donne. La sua organizzazione ha giocato un ruolo decisivo per la depenalizzazione della pillola abortiva Ru486.

Binoy Kampmark - Docente universitario al Royal Melbourne Institute of Technology, si occupa di storia, diritto e relazioni internazionali. Sta ultimando una pubblicazione riguardo l'evoluzione del concetto di "stato canaglia" negli Usa.

NUOVO GALLES DEL SUD

Kellie Tranter - Avvocato e attivista per i diritti umani, ha tenuto numerose conferenze in cui ha parlato di sfruttamento economico, cambiamenti climatici e democrazia di genere. Il suo impegno sociale e politico è stato riconosciuto dalla Women's Electoral Lobby.
Alison Broinowski - Giornalista e scrittrice, ha lavorato come free-lance in Giappone e successivamente anche in Filippine, Giordania e Corea del Sud in qualità di funzionaria diplomatica per il Dipartimento di Affari Esteri.

AUSTRALIA OCCIDENTALE


Gerry Georgatos - Giornalista d'inchiesta ed attivista per i diritti umani, si occupa principalmente delle problematiche che riguardano le comunità aborigene: povertà, suicidi e vagabondaggio. E' stato anche difensore dei diritti dei rifugiati e promotore di campagne contro la droga.

Suresh Rajan - Economista e consulente finanziario, si batte anche per la tutela dei disabili e delle comunità etniche. E' presidente della National Ethnic Disability Alliance.



E non solo: il Partito Wikileaks annuncia sul proprio sito web di aver intenzione di inserirsi anche nelle liste di Queensland e Tasmania, mentre si avvicinano le elezioni previste per settembre. Tecnicamente il partito esiste dallo scorso 23 marzo, data in cui è avvenuta la registrazione alla Commissione elettorale australiana e oggi i presupposti per un ottimo risultato elettorale ci sono tutti. Un sondaggio nazionale condotto ad aprile ha dimostrato che il 26% degli elettori sarebbe disposto a sostenere il Wikileaks Party, con un picco del 36% nel Nuovo Galles del Sud; inoltre solo nel primo mese si sono registrati 1300 iscritti. Certo, non è molto rispetto ai cinquantamila e agli ottantamila che contano rispettivamente il Partito Laburista e quello Liberale, le due principali fazioni politiche del paese, ma di questo passo le cifre aumenteranno rapidamente. 

Alle ultime elezioni del 2010 la sinistra dell'attuale Primo Ministro Kevin Rudd, che ha preso il posto della dimissionaria Julia Gillard, ha vinto con un margine di appena trentamila voti, condizione che ha portato ad un equilibrio parlamentare delicatissimo. E' proprio contro questo sistema bipartitico che Assange si propone di combattere, con semplici ed incisive parole d'ordine. Mettiamo una luce sull'ingiustizia e sulla corruzione, sottotitolo E' il momento per un reale cambiamento, è lo slogan per la campagna di iscrizione al partito, che si unisce ai tre principi basilari del movimento: trasparenza, responsabilità, giustizia. Naturalmente non può mancare tra gli ideali del Wikileaks Party la strenua difesa della rete libera e incontrollata da parte degli organi di potere, ribadendo di voler portare "il giornalismo investigativo nel cuore del Senato australiano". La priorità è quella, non si discute. "Il nostro è un partito che controllerà, non è un partito di governo", continua il fondatore calcando una scia che accosta la sua neonata organizzazione ad una linea affine a quella del Movimento Cinque Stelle, solo che a differenza di Beppe Grillo Assange concorre in prima persona ad uno scranno parlamentare. In caso di vittoria il giornalista potrebbe contare sulla possibilità di utilizzare la sua elezione senatoria come salvacondotto per porre fine alla sua odissea e tornare in patria, anche se a questo proposito avrà a disposizione un limitato periodo di tempo. Se infatti entro un anno egli non riuscisse ad occupare il suo seggio, lo perderà. Insomma, ciò che succederà in futuro è praticamente impossibile da prevedere, ma è certo che l'asilo offerto dal governo di Correa non potrà durare in eterno e le forze dell'ordine britanniche non hanno intenzione di mollare. Tuttavia resta sempre da considerare l'assicurazione, ovvero il famoso file insurance.aes256 contenente importanti informazioni sulla guerra in Afghanistan, del quale Assange tempo fa dichiarò di voler divulgare la chiave di decrittazione, se fosse accaduto qualcosa a lui o ai suoi stretti collaboratori. Ma per adesso bisogna pensare ad un programma convincente che dia seguito alle parole chiave che hanno sempre caratterizzato l'attivismo di colui che è stato capace di divulgare duecentocinquantamila documenti riservati degli Usa. E se ci riuscirà lui, quale sarà il prossimo passo? Chissà, forse vedremo Edward Snowden candidarsi alla Casa Bianca.




lunedì 22 luglio 2013

Tour de France, hanno vinto i sospetti

Si è appena conclusa la festa, quella della Grande Boucle che spegne cento candeline a distanza di più di un secolo dalla prima edizione del 1903. Ma mentre Froome taglia trionfale il traguardo parigino non si può non avvertire un groppo alla gola, non solo per la consapevolezza che la festa è finita e da oggi non ci saranno più le emozioni regalateci dalla doppia scalata dell'Alpe d'Huez e dalle volate finali tra Cavendish e Sagan, almeno fino all'anno prossimo. L'impressione è che la passione sia smorzata dalla diffidenza che ormai gli appassionati provano nel vedere un nuovo campione che si inerpica per le salite e subito dopo ha forza sufficiente per scattare più volte, difendersi dagli attacchi e allungare in classifica. Il britannico vincitore ha dovuto vedersela con insinuazioni di ogni genere da parte di tifosi e stampa per certi suoi tempi strepitosi, come in occasione dell'ascesa sul Mont Ventoux.

Troppi casi hanno oscurato il passato di questo sport e lasciato una macchia nelle carriere di tanti corridori. Da Contador, la cui vittoria nell'edizione 2010 della corsa francese è stata cancellata dal controverso caso della bistecca al clenbuterolo, all'arresto di Remy Di Gregorio avvenuto l'anno scorso, durante il primo giorno di riposo del Tour a Bourg-en-Bresse. Tanti piccoli buchi neri che attirano nel vuoto tutto ciò che resta alla luce del sole: la straordinaria prova di Quintana, il giovane Moreno Moser che ha mostrato sprazzi di classe nelle salite e lo spettacolo della Versailles-Parigi, l'arrivo al crepuscolo salutato dalle proiezioni olografiche sull'Arco di Trionfo e dal tricolore disegnato nel cielo dalla flotta aerea. Ad incombere su tutto, quelle sette bande nere che sporcano l'albo d'oro dove una volta era scritto il nome di Lance Armstrong.

La macchina del doping ha un funzionamento complesso che comprende gli sponsor, il cui potere finanziario può decidere la sopravvivenza di una squadra, vedere Team Barloworld, i dirigenti ansiosi di accaparrarsi gli accordi economici migliori ed infine gli atleti, contemporaneamente complici e vittime del sistema, piccoli Faust in caschetto e divisa. Prima vengono le vittorie, gli avversari sempre più alla portata, la resistenza che aumenta a vista d'occhio; poi ci sono le conseguenze, che siano esse scatenate da un test a sorpresa, una crisi improvvisa che porta alla morte (come accadde all'inglese Simpson) o un decadimento fisico precoce. Come sempre la chiave di tutto sta nell'organizzazione: quanto sarebbe bello immaginare un Tour con tappe più brevi, velocità minori e orari di gara meno caldi. Perché ogni nuovo caso di doping è una richiesta di aiuto da parte di uno sport troppo corrotto, immemore di coloro che con anfetamine ed Epo hanno trovato la fine della carriera o della vita, si pensi rispettivamente a Riccò e Pantani. Quando si terrà in conto tutto ciò, allora potremo tornare a guardare il ciclismo senza nutrire sospetti che rasentano la paranoia, magari strabuzzando gli occhi come bambini nel vedere un fresco ragazzo svettare sul Col du Tourmalet. Forse un giorno, davanti all'ennesimo campione caduto in basso, tutto questo accadrà.

Samuel Boscarello per ilcalcio24.it

giovedì 18 luglio 2013

Il cambiamento val bene un "orango"

Di questi tempi sembra che tutti se la prendano con la Kyenge. Perché, mi chiedo? Ce ne sarebbero cose gravi da rinfacciare a ben altri personaggi, ministri e non. Alfano, che dopo essersi fatto soffiare da sotto il naso la moglie del più importante oppositore del regime kazako, promette di silurare un numero indefinito di dipendenti del Viminale. O Bondi, il quale afferma tranquillamente che l'alta incidenza dei tumori nella zona di Taranto non è dovuta ai fumi tossici dell'Ilva, bensì alle sigarette e all'alcol. Dal canto suo la Kyenge è una che lavora tanto senza far troppo rumore, non sbraita nei salotti televisivi, conosce bene l'italiano ma ignora il politichese e sembra la sorella nostrana di Oprah Winfrey. Ed ecco il problema, la pelle. Quando non si può attaccare direttamente l'operato di qualcuno che finalmente vuole superare i limiti cronici della chiusura nazionalista italiana (abolizione del reato di immigrazione clandestina, istituzione dello ius soli), si passa agli insulti. Prima il becero teatrino sulle origini congolesi della ministra messo in scena di fronte ai parlamentari di tutta l'Europa da Borghezio, che come premio per la sua abilità oratoria ha ricevuto l'espulsione dal gruppo degli Euroscettici. Poi la nauseante ed infelice battuta da osteria di Calderoli: “Quando la vedo penso ad un orango”. Impossibile difendere l'espressione classificandola come un'uscita in scivolata da comizio elettorale, né spalleggiarla ostinatamente come il compare leghista Stival, che definisce la frase “offensiva per l'orango”. Altresì inammissibile tentare una giustificazione messa in piedi con un paio di sofismi, al pari della senatrice Fucksia (M5S) che si autodefinisce simile ad una papera.

Il ricorso al razzismo per smontare in modo violento un avversario inattaccabile non è nuovo a noi italiani maestri dello sbeffeggio, che duemila anni fa prendevamo in giro Cicerone per il suo porro al naso e oggi dileggiamo volentieri Brunetta e Berlusconi per la loro statura. Tuttavia ne passa dal semplice nomignolo, utilizzato ora come oggetto di satira ora come strumento di indignazione, alla xenofobia più pronunciata, fatta di ululati dalle curve degli stadi e grida trasudanti di grappa. Dobbiamo ancora comprendere la ricchezza dell'immigrazione, in termini di apertura mentale e rilancio economico del nostro paese. Gli americani lo hanno capito da tempo, loro che a cavallo tra l'ottocento e il novecento vedevano Ellis Island affollarsi di gente proveniente da Agrigento o Avellino. In una relazione del 1912 i nostri antenati venivano descritti come “di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro”. E come loro, naturalmente tutti gli altri che dai luoghi più disagiati del pianeta cercavano fortuna nella terra del Sogno Americano. Che coincidenza! Eppure ventiquattro anni dopo, mentre Hitler si trastullava con le sue idee da ciarlatano del lotto sulla purezza della razza, la freccia nera Jesse Owens umiliava gli atleti ariani alle Olimpiadi di Berlino e Louis Armstrong sbancava ad ogni concerto.


Oggi l'inquilino della Casa Bianca è un discendente delle etnie inglese, tedesca e keniota, mentre Sylvester Stallone potrebbe recarsi a Bari per una rimpatriata di famiglia. Per non parlare dei vari Tiger Woods, Stephen King, Steve Jobs e Matt Groening. Basta rifugiarci dietro il luogo comune dell'immigrato che viene a rubare il lavoro agli italiani, piuttosto pensiamo ai nostri giovani costretti ad espatriare a causa di una guerra civile fatta di politici ingordi e imprenditori senza scrupoli, due figure che spesso combaciano nella stessa persona. Apriamo le nostre frontiere e diamo il diritto a chi nasce qui di essere un cittadino italiano, fermi e risoluti come la Kyenge, perché le idee sono più forti degli insulti. Avanti, ministra: il cambiamento val bene un “orango”.

lunedì 15 luglio 2013

Homer Simpson ha perso La Voce: addio a Tonino Accolla

Quello del doppiatore è un mestiere duro e indispensabile, come il mediano o lo spalaneve. Anche se il successo di un film dipende in gran parte dal doppiaggio, quasi sempre a raccogliere il merito di una gag comica o una battuta epocale è l'attore, tralasciando quanti traduttori abbiano sudato per adattare all'italiano un'allitterazione inglese e la fatica necessaria a dare una voce credibile ad un protagonista. Eppure pensate a Rocky Balboa con la voce di Pupo. Sarebbe tremendo, vero? Il lavoro del doppiatore è di fiato e resistenza (un esempio su tutti, la cadenza massacrante del Sergente Hartman in Full Metal Jacket), la cui gratificazione è un trafiletto nei titoli di coda, quando le poltrone del cinema si svuotano e gli immancabili spettatori assonnati si sgranchiscono le gambe. Poi ci sono i migliori, quelli cui il pubblico si affeziona perché la loro voce è sinonimo di grandi capolavori del cinema che spesso diventano simboli di un'intera generazione. I Simpson sono il marchio d'eccellenza della classe '90-'95, arrivando a contagiare grandi e piccoli con il sarcasmo raffinato, l'ironia mai grossolana e la straordinaria umanità di Homer Simpson. Il capofamiglia di Evergreen Terrace rappresenta ognuno di noi, con qualche talento e tanti difetti. Ogni volta che Homer si addormenta sul posto di lavoro, fa le ore piccole alla taverna di Boe o esulta di fronte ad una costoletta di maiale, è come se fossimo presi per la spalla e ci venisse sussurrato: "Non preoccuparti. Capita anche a me, che sono il simbolo della serie più amata degli anni novanta e duemila". Il merito dell'impagabile singolarità del carattere di Homer è dovuto alla classe di Tonino Accolla. Se Frank Sinatra era "The Voice", egli invece rappresentava "La Voce" dei più amati personaggi del pubblico italiano. Il timbro gutturale di Homer e i suoi tanti tormentoni ormai passati alla storia quali "D'Oh" e "Mitico!", la leggendaria risata di Eddie Murphy e la parlantina sbrigliata di Jim Carrey in Una Settimana da Dio. Si deve a lui la direzione del doppiaggio di gran parte delle stagioni de I Simpson (compreso il fortunato film del 2007) e di altre pellicole indimenticabili come Titanic e Avatar, oltre ad un'interminabile serie di attori e personaggi cui ha prestato la voce. Una carriera straordinariamente prolifica che ha contribuito in modo determinante alla fama dell'Italia come patria di grandi doppiatori, al pari di Ferruccio Amendola e Renato Izzo, da considerare il padre artistico di Accolla, avendolo scoperto ed avviato alla carriera di doppiatore. Da oggi in poi gli attori e i personaggi che più hanno appassionato il pubblico italiano non saranno più gli stessi: hanno perso per sempre la loro fantastica voce. Grazie, "Mitico" Tonino!

giovedì 11 luglio 2013

Le Sentenze del Sabato Sera

C’è solo una cosa peggiore di un arbitro brasiliano che accoltella un giocatore in campo e viene squartato dalla folla inferocita. Si tratta del perbenismo ipocrita della gente che a novemila chilometri di distanza viene a conoscenza della notizia e imbracciando la tastiera mitraglia sentenze contro i “selvaggi”.
La specie del Sentenziante Domenicale non è certo in via d’estinzione. Al contrario, il web sta favorendo lo sviluppo esponenziale di questi esemplari, che una volta vivevano confinati nelle riserve naturali dei Bar Sport. Adesso l’areale dei sentenzianti è costituito da social network, box a fondo pagina riservati a commentare le notizie divulgate dalle grandi testate giornalistiche e forum. Sono subito riconoscibili per gli attacchi gratuiti all’oggetto della loro filippica e per il linguaggio, che è classificabile tra lo sgrammaticato (k per ch, genocidio di maiuscole e punteggiatura) e l’offensivo. Il loro più alto obiettivo è ricevere l’approvazione dei simili, riassunta in un “mi piace” o in un commento altrettanto scurrile. Si trovano dappertutto accanto a noi, camuffati in una perfetta posa da mancato opinionista televisivo e pronti ad attaccare con le loro argomentazioni imparate a memoria, alla maniera del Giovin Signore di Parini.

I più pericolosi si scatenano in occasione di un fatto di cronaca nera, meglio se si tratta di un immigrato stupratore o di un’autobomba in Medio Oriente, e il loro numero preferito è la caccia all’untore. E così da sabato scorso, quando sul web hanno cominciato a circolare le prime immagini dell’arbitro ventenne decapitato, gli arti spezzati e il corpo tumefatto, hanno cominciato a fiorire boccioli di ipocrisia pura in frasi del tipo “Io non sono come loro” e “Non sono degni di organizzare i Mondiali”, come se le vittime della faida fossero Messi e Webb, non due ragazzi che si trovavano su quel campo in vesti diverse, ma con l’unico scopo di dimenticare almeno per novanta minuti la povertà dei bairros dello stato di Maranhao.

Sono le sentenze del sabato sera, solo che al posto dei Bee Gees e di John Travolta ci sono piccoli Sgarbi seduti su poltroncine virtuali, ognuno protagonista di un talk show ad personam. Alcuni illuminati arrivano a proporre di vietare alla nazionale italiana di partire per il Brasile l’anno prossimo, “per motivi di sicurezza”. Perché in Italia naturalmente non avvengono cose del genere. Tutto ordinario, nel paese in cui si grida al linciaggio se un extracomunitario ruba per fame e poi si costruisce un caso mediatico intorno a Zio Michele e la Cugina Sabrina, con pianti in diretta televisiva e un certo Vespa che ronza gongolante di fronte al suo bel plastico.

Perché se ciò che è successo in Brasile è l’atto di un popolo ignorante e analfabeta (altra perla di Saggezza Sentenziante), allora in Italia dovremmo vergognarci e calare le bandiere a mezz’asta ogni volta che sentiamo parlare di Stefano Cucchi, Filippo Raciti e della macelleria messicana alla Diaz. Tutti gli episodi di una violenza così primitiva e irrazionale hanno come unica causa la disperazione del vivere, e di quello non sono colpevoli gli esecutori dell’omicidio, per quanto essi siano da condannare senza pietà. I mandanti dello spargimento di sangue sono altri. Provate a guardare in televisione o sul web tutti coloro che in Italia, Brasile e ogni altra parte del mondo arricchiscono il banchetto del potere con le carni della povera gente. Inveite pure contro di loro, cari sentenzianti. Guadagnerete meno “mi piace”, ma almeno avrete imparato a guardare oltre le apparenze.

Samuel Boscarello per cogitoetvolo.it

mercoledì 10 luglio 2013

Alla scoperta dell'Esercito di Silvio

Immaginate di svegliarvi una mattina e scoprire che si è formato un nuovo esercito, di stanza a due passi da casa tua. Una sorta di Hitler Jugend, solo che invece di camicie brune e passo dell'oca esso consiste in un tripudio campanilista delle parole chiave che hanno accompagnato la scalata di Berlusconi al potere: l'home page del sito dedicato all'Esercito di Silvio si apre con una scritta che campeggia trionfale. "L'esercito della libertà", sottotitolo "Uniti per difendere il Presidente Berlusconi". Se si vuole provare un brivido di terrore è bene dare un'occhiata il contatore degli arruolamenti a destra, che segna già 19mila volontari pronti a combattere nella Campagna d'Italia, che in pratica sarebbe un tour in difesa di Colui-Che-E'-Vittima-Delle-Toghe-Rosse. Da notare l'onnipresente simbolo di Forza Italia, salutato come il partito che riunificherà il centro-destra attraverso questo grande viaggio dai toni vagamente napoleonici. Da Bari a Padova, passando da Roma, Milano e Torino, le piazze saranno riempite per metà da accaniti sostenitori dell'Esercito, mentre l'altro cinquanta percento sarà probabilmente costituito da figuranti, abitudine non nuova per i berlusconiani. Insomma, un gioco da ragazzi. Perfino arruolarsi è più semplice che votare alle primarie del Pd; basta inserire poche generalità, email e telefono e poi sarete pronti a sostenere il Presidente nella Guerra dei Vent'anni. Leggendo i commenti dei soci di questa Invincibile Armata sembra di trovarsi di fronte alla descrizione di un giovane Lupetto che si appresta a diventare Esploratore. Berlusconi viene definito umile, disposto ad ascoltare i giovani, comunicativo e chi più ne ha più ne metta. Il tutto a fianco di una biografia in stile Mahatma che titola "La vita straordinaria di Silvio Berlusconi", la quale dipinge il Presidente come uno statista, vittima di un costante complotto ordito dalla sinistra e tuttavia impegnato a risolvere le questioni italiane ed internazionali. Peccato che abbiano dimenticato di scrivere che da Arcore non è solo passat"la storia del nostro paese", ma anche un numero indefinibile di soubrette e giovani nipoti di capi di stato maghrebini. Non figurano nemmeno le perle di saggezza stillate dalla sua bocca in varie occasioni, come quando definì Obama "giovane, bello e abbronzato" o la Merkel una "culona inchiavabile". Il resto è tutto uno spumeggiare di retorica, un ritratto che vede Silvio come il Padre della Patria e l'uomo giusto per salvare l'Italia. Insomma, la solita solfa che ci viene rifilata da vent'anni, solo riproposta con le parole di entusiasti pidiellini in partenza per la loro battaglia. Ultima, imperdibile chicca, la voce "Organizzazioni aderenti". Quasi metà di esse (quattro su nove) sono sezioni territoriali dei Promotori della Libertà, mentre tra le altre troviamo Forza Insieme, Voce dell'Italia Studentesca (forse di un atomo di essa: fatevi un giro nei social network e guardate un po' cosa ne pensano i giovani del Berlusca), il Club della Libertà e un paio di associazioni i cui fondatori erano forse un po' a corto di fantasia al momento di scegliere il nome: Dai Forza All'Italia, con il suo inconfondibile gusto di lista-civetta, e il tocco finale: Azzurri '94, il cui obiettivo è forse quello di dimostrare che l'errore dal dischetto di Baggio  contro il Brasile fu il risultato di una congiura ordita dalla Boccassini in combutta con il Pds. Cari Silviofili, aprite gli occhi. Quando vi accorgerete che la vostra Crociata è un'Armata Brancaleone, sarà ormai troppo tardi. Fate qualcos'altro per ingannare il tempo, coltivate girasoli, datevi al fai-da-te o cercate una nuova cura all'uveite. Ma, per favore, non rendete l'Italia ancora più ridicola.

sabato 6 luglio 2013

Mattatoio brasiliano, faida in campo: due morti

L'arbitro Otavio Jordao da Silva de Catanhede, torturato
e decapitato in campo.
Il binomio calcio-violenza si rafforza pericolosamente in Brasile, dove fino ad una settimana fa infuriavano gli scontri dei manifestanti, che protestavano contro le follie economiche del governo nell'organizzazione della tripletta Confederations Cup-Mondiali-Olimpiadi. Un nuovo episodio, decisamente più efferato di uno scambio di manganellate con le forze dell'ordine, è avvenuto nello stato di Maranhao, nella zona nord-orientale del paese. Un territorio vasto più di 330 km quadrati, lontano dalla magnificenza del Maracanà e dai benestanti che possono permettersi di agguantare dalle tribune il pallone calciato da Bonucci a Fortaleza. Qui i ricchi (pochi) vivono sulle spalle dei poveri (molti) che vivono nei bairros, quartieri popolari di periferia. La passione per il calcio è uguale a quella che si respira a Rio, ma è impossibile non lasciarsi pervadere da un moto di turbamento quando una partita tra dilettanti si trasforma in un macello.

Capita tutto troppo velocemente perché qualcuno si possa accorgere di quanto sta accadendo. L'arbitro, il ventenne Otavio Jordao da Silva de Catanhede, espelle Josenir dos Santos Abreu. Il giocatore (31 anni) non ci sta e prende a calci il direttore di gara, il quale estrae un coltello e lo affonda nel petto di Josenir. Quando il giovane cade a terra, i tifosi insorgono. Entrano in campo, trascinano l'arbitro e lo legano al palo. Poi comincia il rituale della vendetta: botte e sassate, qualcuno decapita la vittima e ne espone la testa. Quando la folla si dirada, ai soccorritori non resta che raccogliere il cadavere fatto a brani. Due morti nel mattatoio maranhense, tutti colpevoli, nessuno assolto. Il pallone rotola ancora una volta nel sangue e noi vi chiediamo: fermatevi; per un giorno, una settimana o un mese. Abbassate le bandiere a mezz'asta e portate il lutto al braccio. Perché se la tomba del calcio è stato l'Heysel, ogni giorno che passa qualcuno la scoperchia per poter infierire ancora un po'.

Samuel Boscarello per ilcalcio24.it


Spiagge bianche e maree nere

Signori onorevoli, grazie per avermi dato l’opportunità di parlare. Tra l’altro vedo che da qualche parte tra i giornalisti si nascondono alcuni manager, che spuntano tra le arcate che dominano i banchi dell’emiciclo come ciuffetti di erba selvatica nella macchia.
Voglio raccontarvi di quando da bambino andavo a campeggiare con la mia famiglia in un posto vicino ad Agrigento, nella costa mediterranea della Sicilia. Il sole dell’estate faceva brillare le onde del mare e la cima di un grande scoglio da cui i più temerari osavano tuffarsi. Era proprio un bel posto… scusi onorevole, potrebbe mettere giù quel tablet? Grazie.
Come stavo dicendo, era una bella spiaggia. Si trovava tra due città, Gela e Licata. Uso l’imperfetto perché un giorno su quella spiaggia trovammo il divieto di balneazione: inquinamento da amianto, diceva il cartello come uno spietato giudice che pronunciava la condanna. Ma l’unica colpa di quel tratto di costa era trovarsi in una zona di cui si è sempre abusato.
Vedo che non ho ancora la vostra attenzione, così userò una parola che a voi è senz’altro cara: D.I.A.R.I.A. Noto con piacere che adesso ascoltate tutti! Bene, devo deludervi. I D.I.A.R.I.A. sono Disastri Intollerabilmente Accaduti per Ragioni di Incuria Ambientale. Ebbene, adesso immaginate un grande stabilimento petrolifero sulle foci di un fiume che sbocca nel mare più bello e ricco del mondo per la sua fauna ittica. Cosa succede se ettolitri di petrolio vengono riversati in mare in seguito ad una perdita? Un disastro, appunto. Il problema è che stavolta la marea nera non inquina il golfo del Messico, che chissà per quanto tempo ancora risentirà del mortale omaggio gentilmente offerto nel 2010. In questo periodo sembra che il mare della città di Gela sia stato attaccato da un grande cancro nero galleggiante. Passando per il Lungomare Federico II di Svevia non si può fare a meno di rabbrividire: ogni giorno quella strada è percorsa da gente che va al lavoro, genitori che accompagnano i bambini a scuola e amanti della corsa che vogliono respirare a piene narici l’odore del mare. Peccato che spesso si senta solo il tanfo aspro del fumo delle ciminiere, che bruciano ininterrottamente offuscando il cielo anche nelle giornate di sole. I gelesi vanno così fieri del loro mare che ne parlano gonfiando il petto, annunciando nelle giornate afose dell’estate che “domani si va in spiaggia”. Chissà se adesso potranno dire lo stesso, dopo aver visto le barriere di sicurezza solcare le onde in un tentativo – pressoché vano – di contenere l’acqua inquinata.
Quel che vi chiedo è semplice: quanti metri cubi di mare dovranno ancora essere inquinati prima di capire che il petrolio è sicuro quanto quel nucleare contro cui ci siamo tutti – giustamente – scagliati due anni fa? Quanto lavoro dovremo dare ad oncologi ed endocrinologi per accorgerci che soffocando le energie alternative stiamo uccidendo noi stessi? Quanto tempo dovrà passare perché si finisca di sfregiare una terra incantevole come la Sicilia, tra l’altro minacciata anche da un mostro chiamato Muos? Adesso mi fermo qui, o finirà che Bob Dylan mi citerà per plagio. Aspetto una risposta da parte vostra. Prendetevi pure i rimborsi spese – a patto che siano davvero rimborsi -, ma fate in modo che non ci siano più D.I.A.R.I.A.
Grazie.

Samuel Boscarello per cogitoetvolo.it

mercoledì 3 luglio 2013

Dieci motivi (più uno) per dire no agli F35

Vorrei che il Governo acquistasse gli F35, se davvero si trattasse di elicotteri che trasportano malati e spengono incendi (Boccia dixit). Il problema è che si tratta di cacciabombardieri che sganciano ordigni e uccidono persone [1].
Io non li voglio perché il Governo nel suo “pacchetto lavoro” ha stanziato 15 milioni di euro l’anno per finanziare i tirocini universitari, mentre per un singolo aereo bisogna sborsarne tra i 90 e i 106 [2].
Una montagna di denaro, tale che con il costo di un caccia si potrebbe mantenere un ospedale in Africa per i prossimi cinquant’anni [3].
Ma tutto ciò è poca cosa rispetto alle stime dei costi totali, che ammontano a più di 40 miliardi di dollari, cui bisogna aggiungere i 200 miliardi di spese d’acquisto. Se tutto questo denaro venisse distribuito equamente ad ogni essere umano sulla faccia della terra, ciascuno riceverebbe circa 35 dollari [4].
Io non voglio gli F35 perché, ammesso che sia vero che produrranno diecimila posti di lavoro, ciò accadrà a spese di chi da un’altra parte del mondo tremerà di terrore nel vederli in cielo [5].
Del resto si tratta della tecnologia militare più avanzata, firmata Lockheed Martin, la stessa azienda che si occupa di progettare i satelliti geostazionari Muos [6].
Figurarsi che l’Aeronautica, con un orgoglio sinistro, si ritiene soddisfatta del modello in quanto possiede “uno spiccato orientamento per l’attacco aria-suolo, bassa osservabilità radar, in grado di utilizzare un’ampia gamma di armamento, pensato e progettato per quei contesti operativi che caratterizzano le moderne operazioni militari di quest’era successiva alla guerra fredda” [7].
Io non voglio gli F35 perché “per amare la pace, bisogna armare la pace” è una frase degna di un circolo di veterani della Normandia, non di un ministro della Repubblica Italiana che ha giurato sulla Costituzione [8].
Che il ministro Mauro vada a leggere il certificato di nascita del nostro Stato, all’articolo 11:“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” [9].
Ministro, se lei ritiene che per mantenere la pace la si debba imbracciare il fucile, scenda pure sul campo di battaglia. Io, in quanto cittadino, mi rifiuto essere complice di omicidi mascherati sotto il nome di “missioni di pace” [10].
Ma soprattutto non voglio gli F35 perché credo che la vera missione di pace sia ripulire il cielo da ogni cacciabombardiere, il mare da tutte le portaerei e la terra da ogni singolo carro armato. Solo allora avremo vinto la nostra battaglia.
Samuel Boscarello per cogitoetvolo.it

martedì 2 luglio 2013

Uncle Sam is watching you

Storie di spionaggio, intercettazioni e segreti inconfessabili. Cambiano i volti, i tempi e i contesti, ma il contenuto è sempre quello. Il gate colpisce ancora. Protagonista e principale imputato il governo degli Stati Uniti d'America, ancora una volta scoperto ad appropriarsi di ciò che ogni paese democratico (difficile trovarne uno, di questi tempi) dovrebbe riconoscere come un diritto inviolabile, quello alla privacy. Il Datagate è solo un sintomo della schizofrenia da terrorismo di cui soffre l'America dall'11 settembre 2001 e non bisogna certo scomodare Freud per affermarlo. La prevenzione degli attacchi contro la cittadinanza si è trasformata in una paranoica ossessione, fatta di scrupolosi controlli della vita privata della popolazione. Visiti spesso siti di armi e su Facebook critichi duramente il presidente Obama? Allora sei un potenziale terrorista, da tenere d'occhio, finché la Nsa non avrà appurato che il tuo atto più pericoloso nei confronti della società consiste nel gettare la plastica nel cassonetto dell'umido. Ma fino a quel momento tu sei una possibile minaccia, uno che la mattina va ad accompagnare i figli a scuola e poi si chiude nella cantina di casa a studiare il modo migliore per far saltare in aria Franklin Square. E così loro hanno il diritto di entrare nella tua vita privata e verificare se tu abbia collegamenti con un gruppo jidaista o un manipolo di anarchici, invadendo i segreti così piccoli ed altrettanto inconfessabili che ognuno custodisce, magari confidandoli ad un amico nel mezzo di una telefonata nella (vana) sicurezza che nessun'altro stia ascoltando.

Ma il comportamento schizoide dello Zio Sam non si risolve semplicemente in una innocente sbirciata nelle vite dei suoi cittadini (pensate che in Italia non succeda? Complimenti, avete appena vinto un biglietto aereo di sola andata per il Mondo Reale). Ecco che negli ambienti di Bruxelles si scopre con indignazione che gli Usa tengono sotto controllo anche le sedi diplomatiche di paesi come l'Italia e la Francia. Non stiamo parlando di stati canaglia come la Corea del Nord o l'Iran, bensì di nazioni in rapporti decisamente idilliaci con gli Stati Uniti (la collaborazione del nostro paese al progetto F35 è l'equivalente di un'appassionata dichiarazione d'amore. Amare la pace, armare la pace, non dimentichiamolo. Semper Fidelis). Insomma, ciò che succede oggi è ben più grave di quanto accadde quarant'anni fa al Watergate Hotel. Allora ad essere spiati erano solo gli avversari politici, mentre oggi nemici e amici si trovano sotto lo stesso fuoco silenzioso del grande orecchio dello Zio. Perché sarà anche vero che l'età lo avrà reso paranoico, ma lui ci sente ancora benissimo.