Di questi tempi sembra che tutti se la
prendano con la Kyenge. Perché, mi chiedo? Ce ne sarebbero cose
gravi da rinfacciare a ben altri personaggi, ministri e non. Alfano,
che dopo essersi fatto soffiare da sotto il naso la moglie del più
importante oppositore del regime kazako, promette di silurare un
numero indefinito di dipendenti del Viminale. O Bondi, il quale
afferma tranquillamente che l'alta incidenza dei tumori nella zona di
Taranto non è dovuta ai fumi tossici dell'Ilva, bensì alle
sigarette e all'alcol. Dal canto suo la Kyenge è una che lavora
tanto senza far troppo rumore, non sbraita nei salotti televisivi,
conosce bene l'italiano ma ignora il politichese e sembra la sorella
nostrana di Oprah Winfrey. Ed ecco il problema, la pelle. Quando non
si può attaccare direttamente l'operato di qualcuno che finalmente
vuole superare i limiti cronici della chiusura nazionalista italiana
(abolizione del reato di immigrazione clandestina, istituzione dello
ius soli), si passa agli insulti. Prima il becero teatrino sulle
origini congolesi della ministra messo in scena di fronte ai
parlamentari di tutta l'Europa da Borghezio, che come premio per la
sua abilità oratoria ha ricevuto l'espulsione dal gruppo degli
Euroscettici. Poi la nauseante ed infelice battuta da osteria di
Calderoli: “Quando la vedo penso ad un orango”. Impossibile
difendere l'espressione classificandola come un'uscita in scivolata
da comizio elettorale, né spalleggiarla ostinatamente come il
compare leghista Stival, che definisce la frase “offensiva per l'orango”.
Altresì inammissibile tentare una giustificazione messa in piedi con
un paio di sofismi, al pari della senatrice Fucksia (M5S) che si
autodefinisce simile ad una papera.
Il ricorso al razzismo per smontare in
modo violento un avversario inattaccabile non è nuovo a noi italiani
maestri dello sbeffeggio, che duemila anni fa prendevamo in giro
Cicerone per il suo porro al naso e oggi dileggiamo volentieri
Brunetta e Berlusconi per la loro statura. Tuttavia ne passa dal
semplice nomignolo, utilizzato ora come oggetto di satira ora come
strumento di indignazione, alla xenofobia più pronunciata, fatta di
ululati dalle curve degli stadi e grida trasudanti di grappa.
Dobbiamo ancora comprendere la ricchezza dell'immigrazione, in
termini di apertura mentale e rilancio economico del nostro paese.
Gli americani lo hanno capito da tempo, loro che a cavallo tra
l'ottocento e il novecento vedevano Ellis Island affollarsi di gente
proveniente da Agrigento o Avellino. In una relazione del 1912 i
nostri antenati venivano descritti come “di piccola statura e di
pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché
tengono lo stesso vestito per molte settimane. Dicono che siano
dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li
evitano perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati
quando le donne tornano dal lavoro”. E come loro, naturalmente
tutti gli altri che dai luoghi più disagiati del pianeta cercavano
fortuna nella terra del Sogno Americano. Che coincidenza! Eppure
ventiquattro anni dopo, mentre Hitler si trastullava con le sue idee
da ciarlatano del lotto sulla purezza della razza, la freccia nera
Jesse Owens umiliava gli atleti ariani alle Olimpiadi di Berlino e
Louis Armstrong sbancava ad ogni concerto.
Oggi l'inquilino della Casa Bianca è
un discendente delle etnie inglese, tedesca e keniota, mentre
Sylvester Stallone potrebbe recarsi a Bari per una rimpatriata di
famiglia. Per non parlare dei vari Tiger Woods, Stephen King, Steve
Jobs e Matt Groening. Basta rifugiarci dietro il luogo comune
dell'immigrato che viene a rubare il lavoro agli italiani, piuttosto
pensiamo ai nostri giovani costretti ad espatriare a causa di una
guerra civile fatta di politici ingordi e imprenditori senza
scrupoli, due figure che spesso combaciano nella stessa persona.
Apriamo le nostre frontiere e diamo il diritto a chi nasce qui di
essere un cittadino italiano, fermi e risoluti come la Kyenge, perché
le idee sono più forti degli insulti. Avanti, ministra: il
cambiamento val bene un “orango”.
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