STASERA CON ParlaMente 18 luglio 2014

giovedì 18 luglio 2013

Il cambiamento val bene un "orango"

Di questi tempi sembra che tutti se la prendano con la Kyenge. Perché, mi chiedo? Ce ne sarebbero cose gravi da rinfacciare a ben altri personaggi, ministri e non. Alfano, che dopo essersi fatto soffiare da sotto il naso la moglie del più importante oppositore del regime kazako, promette di silurare un numero indefinito di dipendenti del Viminale. O Bondi, il quale afferma tranquillamente che l'alta incidenza dei tumori nella zona di Taranto non è dovuta ai fumi tossici dell'Ilva, bensì alle sigarette e all'alcol. Dal canto suo la Kyenge è una che lavora tanto senza far troppo rumore, non sbraita nei salotti televisivi, conosce bene l'italiano ma ignora il politichese e sembra la sorella nostrana di Oprah Winfrey. Ed ecco il problema, la pelle. Quando non si può attaccare direttamente l'operato di qualcuno che finalmente vuole superare i limiti cronici della chiusura nazionalista italiana (abolizione del reato di immigrazione clandestina, istituzione dello ius soli), si passa agli insulti. Prima il becero teatrino sulle origini congolesi della ministra messo in scena di fronte ai parlamentari di tutta l'Europa da Borghezio, che come premio per la sua abilità oratoria ha ricevuto l'espulsione dal gruppo degli Euroscettici. Poi la nauseante ed infelice battuta da osteria di Calderoli: “Quando la vedo penso ad un orango”. Impossibile difendere l'espressione classificandola come un'uscita in scivolata da comizio elettorale, né spalleggiarla ostinatamente come il compare leghista Stival, che definisce la frase “offensiva per l'orango”. Altresì inammissibile tentare una giustificazione messa in piedi con un paio di sofismi, al pari della senatrice Fucksia (M5S) che si autodefinisce simile ad una papera.

Il ricorso al razzismo per smontare in modo violento un avversario inattaccabile non è nuovo a noi italiani maestri dello sbeffeggio, che duemila anni fa prendevamo in giro Cicerone per il suo porro al naso e oggi dileggiamo volentieri Brunetta e Berlusconi per la loro statura. Tuttavia ne passa dal semplice nomignolo, utilizzato ora come oggetto di satira ora come strumento di indignazione, alla xenofobia più pronunciata, fatta di ululati dalle curve degli stadi e grida trasudanti di grappa. Dobbiamo ancora comprendere la ricchezza dell'immigrazione, in termini di apertura mentale e rilancio economico del nostro paese. Gli americani lo hanno capito da tempo, loro che a cavallo tra l'ottocento e il novecento vedevano Ellis Island affollarsi di gente proveniente da Agrigento o Avellino. In una relazione del 1912 i nostri antenati venivano descritti come “di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro”. E come loro, naturalmente tutti gli altri che dai luoghi più disagiati del pianeta cercavano fortuna nella terra del Sogno Americano. Che coincidenza! Eppure ventiquattro anni dopo, mentre Hitler si trastullava con le sue idee da ciarlatano del lotto sulla purezza della razza, la freccia nera Jesse Owens umiliava gli atleti ariani alle Olimpiadi di Berlino e Louis Armstrong sbancava ad ogni concerto.


Oggi l'inquilino della Casa Bianca è un discendente delle etnie inglese, tedesca e keniota, mentre Sylvester Stallone potrebbe recarsi a Bari per una rimpatriata di famiglia. Per non parlare dei vari Tiger Woods, Stephen King, Steve Jobs e Matt Groening. Basta rifugiarci dietro il luogo comune dell'immigrato che viene a rubare il lavoro agli italiani, piuttosto pensiamo ai nostri giovani costretti ad espatriare a causa di una guerra civile fatta di politici ingordi e imprenditori senza scrupoli, due figure che spesso combaciano nella stessa persona. Apriamo le nostre frontiere e diamo il diritto a chi nasce qui di essere un cittadino italiano, fermi e risoluti come la Kyenge, perché le idee sono più forti degli insulti. Avanti, ministra: il cambiamento val bene un “orango”.

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